Regionalista convinto, politico Dc, Piero Bassetti (classe 1928) è stato il primo presidente della Regione Lombardia, dal 1970 al ’74. Da allora non ha più smesso di difendere il ruolo di Milano e della sua Regione. Lo ha fatto di recente anche nel suo discorso in occasione dei cinquant’anni di Regione Lombardia. Secondo Bassetti solo i territori e la loro espressione politica su piccola (la Lombardia) e larga scala (l’Europa) possono innovare la democrazia rappresentativa. Con il Sussidiario Bassetti affronta tutti i temi sul tappeto. Promuove la risposta della Lombardia alla pandemia di Covid-19, ma critica Maroni; smonta l’inchiesta su Fontana, condanna il centralismo romano, auspica il maggioritario, dice no al taglio dei parlamentari, esprime dubbi su Conte, chiede alla Merkel di fare come Federico II. Solo così – dice – l’Italia può farcela.
Piero Bassetti, dopo 35.112 deceduti, non sappiamo se il Covid tornerà. Intanto che cosa ci insegna?
Non arrivo a dire che “nulla sarà più come prima”, ma certamente il Covid ha cambiato il mondo come può farlo un segno dei tempi.
C’è chi ha paragonato la pandemia a una guerra.
Ci ha fatto riscoprire due cose. La prima è la nostra relativa impotenza rispetto a ciò che vale davvero, cioè la vita e la morte. Quando alla sera si contano i morti, anche il Pil passa in secondo piano.
E la seconda?
La nostra impotenza. È la prima pandemia in cui non possiamo prendercela con il Padreterno. O perché non crediamo più alla sua esistenza, o perché in natura, così ci dice la scienza, c’è un sistema di cause ed effetti che abbiamo la responsabilità di gestire.
La Lombardia ha superato la prova del Covid?
Se ci fossimo trovati con una sanità centralizzata e in mano alla burocrazia romana, sarebbe stato un disastro inimmaginabile. Però si è anche visto che il decentramento non basta a risolvere i problemi. Per farlo, bisogna che sia gestito bene.
In Lombardia non è stato così?
Non è stata una Caporetto, è stata un Piave. La sanità ospedaliera ha funzionato. Non è bastato: il mancato controllo della medicina di base sul territorio è stato un grosso errore. Vuol dire che la riforma Maroni era sbagliata. Alla fine però la macchina ha tenuto.
Merito di chi?
Della regionalizzazione. Qualcuno pensa che la non perfezione della risposta sia dipesa dalla regionalizzazione, io sono convinto del contrario. Per fortuna avevamo regionalizzato la sanità.
Lei è un avversario storico del centralismo.
Lo vedo fortissimo. Siamo in una crisi drammatica delle istituzioni perché queste sono in mano ai centralisti. Il centralismo contiene in sé un rischio crescente: quello del dispotismo. Non possiamo permettercelo.
Da che cosa dipende?
L’idea che il potere centralizzato sia più efficiente è ancora molto diffusa. Forse è stato vero in altre epoche, come durante l’illuminismo o l’età napoleonica, ma non può può esserlo in una società complessa.
In questo caso?
Se le soluzioni non vengono dal basso diventano qualitativamente inaccettabili.
Come si contrasta l’offensiva del centralismo?
Investendo sulla formazione. È la scuola a migliorare la qualità del governo, a cominciare dall’autogoverno. Democrazia vuol dire che il potere è nelle mani del popolo. Ma se il popolo è di basso livello, la democrazia diventa cretina. Non a torto gli aristocratici avevano buon gioco nel dire “siamo meglio noi”. Nel 1861 gli alfabetizzati erano il 4% della popolazione.
Dopo l’Unità le cose hanno cominciato a cambiare.
La scuola dell’obbligo ha fatto il suo lavoro nel “fare gli italiani”. Però negli ultimi 20-30 anni non ci siamo resi conto che mentre la società diventava sempre più complessa, la scuola peggiorava. E il “potere del popolo” è divenuto disastroso. La prova più evidente sono i 5 Stelle.
Questo governo è più segnato dai 5 Stelle o dal Pd?
Malgrado tutto, per fortuna è più condizionato dal Pd. I Cinquestelle sono già falliti. Hanno ingannato gli italiani prendendo il 34% alle politiche, ma oggi la gente ha preso loro le misure. Saranno sempre meno votati.
La pandemia ha diviso l’Italia?
Era divisa anche prima. Non siamo un paese, ma due. 15 anni fa eravamo tre paesi, Nord, Centro e Sud, ora siamo due.
Dov’è finito il Centro?
Ha seguito il Nord. La Tav ha creato un corridoio, che non c’era, tra Roma e Milano. Il capoluogo lombardo non si sviluppa più solo sull’asse dell’A4, ma anche dell’A1. L’asse padano ormai ingloba Bologna e Firenze.
Guadagneremo mai il Sud?
Solo se faremo la politica di Federico II, che governava l’Europa da Palermo. L’Europa ha nel Mediterraneo il suo problema più serio. Soltanto in prospettiva europea si creano le premesse per un aiuto serio del Nord al nostro Sud.
Quale Nord?
Noi e Berlino. Ci serve una stretta collaborazione con la Merkel.
Non le sembra che gli Stati europei egemoni, sotto la pelle di un europeismo di facciata, facciano valere logiche realmente sovraniste? Altro che Federico II.
Certamente. Ma la potenza non la si esercita solo sottomettendo gli altri. Per evitarlo servono le autonomie. Italiane ed europee. Serve un regionalismo ripensato su scala europea. L’Europa non può essere fatta di 27 sovranismi di ritorno, serve una nuova stagione del regionalismo che stimoli la riorganizzazione del paese nel segno dell’ammodernamento e delle autonomie.
Intanto ci si appresta a modificare per l’ennesima volta la legge elettorale e a tagliare il numero dei parlamentari.
Del taglio dei parlamentari penso ogni male. Il punto non è ridurne il numero, ma fare in modo che il voto sia una scelta responsabile dei nostri rappresentanti, altrimenti avremo – abbiamo già – una classe dirigente pessima. La gente ormai da 15 anni non vota più per scegliere il suo deputato ma per dire “viva Salvini” o “no a Salvini”. Però se chiedi “chi è il tuo rappresentante?” nessuno te lo sa dire.
Perché nel 1983 lei si dimise da deputato?
Me lo chiese anche la Iotti. Le dissi che se volevamo fare politica dovevamo ricominciare dal basso. È la grande intuizione del regionalismo repubblicano. Il buon governo quando è ispirato dal basso, dalla spinta delle autonomie e delle libertà, produce risultati migliori di quando è impostato dall’alto.
Meglio il proporzionale o il maggioritario?
Domanda difficile. In una società normalmente dotata è meglio il maggioritario, come la Gran Bretagna dimostra tuttora.
Cosa significa “normalmente dotata”?
Il nostro problema è stato la scomparsa dei partiti. In un mondo dove esistono ideologie obiettivamente valide, come lo erano quella cattolico-democratica e quella del Pci, il proporzionale può essere un pregio perché aiuta ad evitare tanti errori. Un partito è una “parte” che ha in comune un pensiero; se sparisce il pensiero, sparisce il partito.
Però il nodo fondamentale è tornare a scegliere.
Se in Italia potessimo proporre un sistema come quello che ha fatto la democrazia inglese, dopo qualche lustro ne vedremmo le conseguenze.
Cosa pensa dell’inchiesta che coinvolge il presidente Fontana?
Secondo me il reato non c’è. Ci vorrebbe anzi un Ambrogino d’oro per solidarismo… Di fronte al fatto che non trovavo i camici necessari, non me ne sarebbe importato nulla del conflitto di interesse. Avrei dovuto lasciar morire la gente? Non ha senso. Penso che otto italiani su dieci sarebbero d’accordo con me.
Molti italiani la pensano come i 5 Stelle.
La gente ha il diritto di essere scema. Ma se sei classe dirigente, hai il dovere di scegliere bene.
Lei è stato un politico democristiano. Oggi c’è un partito che può ambire a svolgere il ruolo politico che ha avuto la Dc?
Anche questa è una domanda difficile. Se ci fosse, sarebbe facile vederlo e sarebbe facile rispondere. Ho l’impressione che da questo guado non usciremo se il paese non sarà capace di un nuovo 25 aprile. La Liberazione produsse una classe dirigente che non c’era.
Ma c’erano gli uomini; questo vuol dire?
C’erano uomini validi, che però non avevano mai diretto la politica. Una parte di classe dirigente era fascista. Tutti capirono che bisognava voltare pagina, cercare nuovi valori. La Dc propose i valori storici del cristianesimo, il Pci quelli del comunismo. Non vedo una componente che possa aspirare ad essere come la Dc di quella stagione. La dobbiamo trovare fuori dal paese, come nel ’43 furono gli Alleati.
E stavolta chi dovrebbe aiutarci?
La Germania della Merkel. Ma anche la Francia di Macron. Forze esterne al paese, ma corresponsabili di quel nostro essere paese che è essere Europa, si offrono per dare muscolatura a chi abbia l’intelligenza di capire che la proposta che ci fa l’Europa è quella salvifica. Sa qual è secondo me il motivo della popolarità di Conte?
Ci dica.
Viene visto come il luogotenente di quell’unica chance che rimane al paese di inserirsi nella proposta della Merkel e dell’Europa.
Ma è all’altezza della situazione?
Secondo me no. Eppure qualcosa sta nascendo. Io da tempo sostengo il ruolo del tutto originale che possono avere gli italiani all’estero, gli italici, come dico io. Sono portatori di valori democratici scevri di faziosità. Quando Conte chiama Colao e poi non lo segue, commette un errore. Se gli dà retta, pone le basi di un’alternativa ai burocrati romani.
È Roma il problema?
Certo. Il potere romano è quanto di più ostile alla modernizzazione del paese. Anche il Papa detesta la palude romana… Nella palude anche i carri armati affondano.
(Federico Ferraù)