La storia si ripete: nel 2012 Formigoni, oggi Fontana. A dare fastidio “è il modello di governo che la Lombardia sta attuando ormai da  più di vent’anni” dice Raffaele Cattaneo, assessore all’Ambiente nella giunta Fontana, due volte assessore ai Trasporti nelle giunte Formigoni, di cui è stato uno dei più stretti collaboratori. “Nel nostro paese si sta affermando una sorta di modello cinese” dice Cattaneo al Sussidiariosulla base del principio che l’unico soggetto legittimato a occuparsi di tutti i temi di interesse collettivo è il governo centrale”. Con quali risultati, lo si è visto durante la pandemia di Covid-19: “il Governo non ha fatto nulla dopo essersi arrogato il potere di fare tutto”.



Secondo Cattaneo la giunta è solida e l’inchiesta camici che vede coinvolto Fontana è destinata a sgonfiarsi.

Prima tanti articoli contro la sanità lombarda. Poi l’inchiesta camici che coinvolge Fontana. Che cosa succede?

Siamo di fronte a un attacco non solo e non tanto alla figura di Attilio Fontana, ma al modello di governo che la Lombardia sta attuando ormai da  più di vent’anni.



Cioè dall’inizio dell’era Formigoni.

Vedo molte analogie con quello che avvenne otto anni fa con Roberto Formigoni. Le forme di questo attacco, che è insieme mediatico e giudiziario, sono molto simili.

Ma quali sono le ragioni?

Gliel’ho detto: è l’attacco a un modello di governo.

E lo dice al di là del merito delle inchieste.

Sull’inchiesta sono stato ascoltato e devo essere prudente. Sono convinto che tutto di sgonfierà ma di quella non parlo. Un giudizio politico su quello che sta accadendo però ce l’ho. Oggi come otto anni fa il disegno è quello di smantellare un modello di governo che ha fatto della sussidiarietà la sua stella polare.



Ci faccia capire.

La Lombardia è riuscita a dimostrare, nei fatti, che pubblico non coincide con statale. Ci può essere un’idea di pubblico, di gestione pubblica, che non coincide con il monopolio dello Stato e delle sue articolazioni territoriali – regioni, provincie, comuni, aziende sanitarie – ma che è fatto dal contributo di soggetti privati e no-profit che erogano servizi pubblici dentro le regole stabilite dalle istituzioni.

Che cosa vi viene obiettato?

Secondo un’ampia schiera di persone, che vanno da Saviano a Lerner e Travaglio, da Majorino e Bussolati alla Roggiani del Pd, per non parlare dei 5 Stelle e di molti altri ancora, la sanità lombarda non ha funzionato perché ha portato nel sistema la contaminazione del privato, il quale secondo loro avrebbe come unico obiettivo il profitto, mentre la sanità e la salute non possono essere oggetto di profitto, ma solo di interesse generale.

Cosa risponde?

È un’idea con molto appeal, indubbiamente ha molta presa. Peccato che non corrisponda alla realtà.

Perché?

Perché l’esperienza della sanità nel nostro paese mette a confronto modelli diversi. Il modello lombardo di collaborazione pubblico privato funziona: offre servizi migliori, costa di meno e ha i conti in ordine. Ci sono modelli interamente pubblici che non funzionano affatto – ne cito alcuni: Lazio, Calabria, Campania – e che hanno accumulato deficit per miliardi di euro bruciando risorse pubbliche. La sanità del Lazio è arrivata ad accumulare 800 milioni di deficit all’anno. Soldi ripianati con la fiscalità generale, che sono poi le nostre tasse. Per avere in cambio un  livello di efficienza dei servizi bassissimo.

La prova?

L’11% delle prestazioni sanitarie lombarde sono erogate a cittadini che vengono da fuori Regione. Non mi pare che dati analoghi si riscontrino nella sanità di altre Regioni italiane.

È il cosiddetto “voto con i piedi”.

Proprio quello. È il segno che la qualità delle prestazioni è ritenuta migliore qui che non nelle Regioni di provenienza. Quando si parlava di chiudere l’aeroporto di Linate ci fu una rivolta dei sindaci del Sud: non potete toglierci questo servizio, dicevano. A Linate arrivano i voli dal Sud Italia che consentono ai pazienti di venire e di tornare in giornata dopo essersi fatti curare negli ospedali lombardi.

Perché il privato non va giù?

Non è tanto il privato in sé ad andare di traverso, perché altre Regioni hanno un modello più privato di quello lombardo e nessuno dice nulla. È l’idea diversa di pubblico. La Lombardia ha scelto un modello di pubblico basato su una idea differente – sussidiaria – del rapporto pubblico-privato. Da noi lo Stato non ha il monopolio, ma il compito di sostenere e aiutare tutto ciò che nasce dal basso, sia esso profit o non profit. Questo modello ha avuto successo.

Durante la pandemia c’è stato un lasso di tempo in cui non sembrava chiaro chi, tra Governo centrale e Regione, dovesse fare che cosa. Come si spiega questo caos di competenze?

Stiamo ai fatti. Il 31 gennaio il Governo delibera lo stato di emergenza, che nella nostra Costituzione non è previsto, facendo riferimento a una norma ordinaria il cui presupposto è “l’immediatezza di intervento”. Il paziente 1 arriva il 21 febbraio, la prima zona rossa il 23 febbraio, quasi un mese dopo. Qual è stata l’immediatezza di intervento del governo? Nessuno l’ha vista. Ne abbiamo però visto i risultati nella carenza di dispositivi di protezione che abbiamo dovuto gestire. Fontana era stato il primo a dire “chiudiamo tutto”.

Questione molto controversa lo stato di emergenza, lo dice il dibattito di questi giorni…

Sì, perché lo stato di emergenza consente di avere quei “pieni poteri” che Salvini spavaldamente invocò, a mio parere facendo un errore politico. Il governo Conte si è dato i pieni poteri a gennaio, prorogandoli due volte fino a ottobre sulla base di presupposti forse giustificabili allora, certamente molto meno oggi.

Qual è l’abuso che lei rimprovera al Governo?

Il Governo non ha fatto nulla dopo essersi arrogato il potere di fare tutto. Ha messo gli enti del territorio nella condizione di ritenere che doveva essere il Governo a fare, non altri al suo posto. La prima zona rossa, quella di Codogno e dintorni, 50mila persone, viene dichiarata congiuntamente da Fontana e Speranza. Però nei giorni successivi comincia nelle forze di governo una narrazione diversa.

Ripercorriamola, se possibile.

La Lombardia viene attaccata. Sono i giorni del post di Toninelli che irride Fontana con la mascherina, accusando lui e i governatori di centrodestra di suscitare allarmismi costruiti ad arte. Sala dice che “Milano non si ferma”, poi è il turno di Gori, dell’aperitivo di Zingaretti. Noi siamo per la ripartenza, dicono. In quella fase era chiarissimo il mood politico.

E poi?

Tutto questo porterà alla zona rossa mancata di Alzano e Nembro. Oggi paradossalmente siamo di fronte a posizioni ribaltate: gli stessi che facevano apertitivi sui Navigli ci accusano di non avere fatto la zona rossa subito, di non essere stati più rigidi.

È una narrazione molto potente.

Sì e soprattutto è difficile credere che sia disinteressata. Meglio: se si guarda da quali penne e da quali testate arriva, è difficile pensare che lo sia.

Oltre le accuse politiche alla sanità lombarda, qual è il motivo politico di tutto questo?

Nel nostro paese si sta affermando una sorta di modello “cinese”, sulla base del principio che l’unico soggetto legittimato a occuparsi di tutti i temi di interesse collettivo è il governo centrale.

Le Regioni ordinarie compiono 50 anni. Tutti segnati dal conflitto sulle competenze. Perché manca l’approccio collaborativo che c’è, per esempio, tra Berlino e i presidenti dei Länder tedeschi?

Perché in un modello cinese l’autonomia è il nemico per definizione. Come tale da abbattere. Qui mi rifaccio a quello che ha detto Piero Bassetti nel suo discorso in occasione del 50esimo. Quando finisce la monarchia e nasce la repubblica, i padri costituenti pensano alle Regioni come a un soggetto equilibratore del potere assoluto e quindi ultimamente dispotico del governo centrale. Nel 1970 le Regioni diventano il baluardo di un’autonomia che, nei fatti, è la stessa che chiedono le scuole, gli ospedali, gli enti funzionali per funzionare bene.

Che cos’è tale autonomia, in sintesi?

È l’esercizio di una responsabilità dal basso, presupposto e condizione del buon governo, rispettoso delle libertà di tutti. È per questo che nell’antiregionalismo che si respira in questo tempo la Lombardia è il primo soggetto da colpire. Un modello di governo alternativo, non centralista ma sussidiario, aperto alla collaborazione della società perché i suoi soggetti, dalle imprese al non profit ai sindacati, ne sono i pilastri.

Cosa la preoccupa di più?

Che il centralismo stia passando come principio nella testa della gente. L’unico soggetto titolato a occuparsi del bene pubblico diventa lo Stato cioè il governo. Il soggetto che ha ricevuto più soldi in beneficienza durante l’emergenza Covid è la protezione civile. Lo Stato intermedia anche la beneficienza!

La giunta è solida?

Sì. Non c’è nessuna ragione politica che giustifichi una crisi all’interno della maggioranza. Le giunte non cadono mai per gli attacchi della minoranza, che per definizione non ha i numeri. Cadono, come avvenne con Formigoni nel 2012, perché ci sono crepe nella maggioranza.

Quali erano?

Allora c’era l’interesse della Lega a governare la Lombardia. Oggi non c’è nessuno che abbia la forza per rivendicare pari interesse politico a governare la Lombardia al posto della Lega. E non vedo tentennamenti da parte di Fontana.

Però c’è chi lo descrive prossimo alle dimissioni.

Non mi risulta. È funzionale all’attacco politico: serve a dimostrare che ci sarebbe una Lombardia debole, fragile, sepolta sotto il peso dei propri errori che non riesce a far fronte alle proprie responsabilità. Ma quando mai?!

Alla luce di tutto questo, come intendete rispondere agli attacchi?

Dobbiamo ovviamente governare bene, ma soprattutto dobbiamo rilanciare il protagonismo della persona e della società come unica e vera alternativa al centralismo. Cioè difendendo il modello lombardo. Una cosa è certa: gli strumenti per rimettere in moto queste energie non saranno magicamente i 209 miliardi del Recovery Fund.

Perché?

Perché sono prestiti concessi dall’alto, iper-regolati. È l’Ue a dire che cosa fare e cosa no. Noi dobbiamo fare il percorso opposto, aiutare chi ha voglia di fare. Non ci tirerà fuori dalla crisi la benevolenza dello Stato, che usa soldi a debito e ne scaricherà i costi sulle generazioni future, ma la voglia di fare dei lombardi e degli italiani.

Qual è la marcia in più di chi ha “voglia di fare”, rispetto a chi attende sovvenzioni?

L’essere mosso da una speranza. Solo chi ha una speranza può assumersi una responsabilità. Chi non ha speranza ha il solo problema di coprirsi le spalle. E quindi di nascondersi dietro le regole e le procedure.

Le regole però vanno osservate, altrimenti si finisce sotto inchiesta.

Vanno osservate sempre. Ma non per nascondersi. Se ci fossimo trincerati dietro le procedure probabilmente non ci sarebbe successo niente, ma non saremmo stati all’altezza del nostro compito. E forse, mi lasci dire, ci sarebbero stati molti morti in più.

(Federico Ferraù)