Dagli anni 90 la Cooperativa Medici Milano Centro ha avviato un progetto per riportare in primo piano la medicina territoriale che soprattutto in Lombardia non esiste quasi più. Ne è vice presidente il dottor Alberto Aronica, specialista in endocrinologia e malattie del ricambio. In piena pandemia la Cooperativa ha messo a punto una app gratuita per tutti i medici che permette di avere una panoramica giornaliera della situazione, un monitoraggio a domicilio dei pazienti, “quello che ha permesso al Veneto di controllare e sconfiggere l’epidemia mentre in Lombardia si è avuto un numero di morti drammatico” ci ha detto in questa intervista. “Abbiamo partecipato alla gara indetta da Regione Lombardia ma purtroppo ha vinto una società privata che costa due milioni e mezzo e che doveva partire il 5 aprile ma tutt’oggi non si è ancora visto niente”. “La condizione di emergenza sanitaria generata dalla rapida diffusione del Covid-19 ha fatto emergere i limiti della ospedalizzazione come unica soluzione per la gestione del paziente positivo in presenza di un numero elevato di pazienti da prendere in carico, e il numero dei morti, perché l’ospedale è conduttore di infezioni. Curare a casa i pazienti lo avrebbe evitato”.



In un suo recente articolo lei scrive che per riorganizzare il sistema sanitario è necessario un cambio culturale. Cosa intende per cambio culturale riferendosi al sistema sanitario?

Intendo dire che i medici dovrebbero abituarsi a quello che peraltro è previsto dall’accordo sanitario nazionale dove si dice che i medici non devono più lavorare da soli ma devono farlo in modo associativo.



Cosa che oggi non accade?

L’ultimo decreto sulla sanità, il Balduzzi del 2012,  dà il via alle AFT (Aggregazione funzionale territoriale) e alle UCCP (Unità complessa di curie primarie). Il primo vuol dire che i medici sul territorio devono lavorare in modo coordinato in progetti comuni. Il secondo è la struttura che ogni regione chiama a suo modo, luoghi dove un gruppo di medici che la legge dice da tre a un massimo di dieci con personale devono gestire situazioni più complesse.

Cosa manca a queste realtà perché siano efficienti?

Come movimento cooperativo lo diciamo dal 1994: i medici devono lavorare sul territorio ma avere un coordinamento comune. In Regione Lombardia con il progetto della cronicità a cui abbiamo preso parte dove però partecipano solo pochi medici si gestisce insieme in modo coerente ad esempio l’ipertensione stabilendo insieme dei modelli di gestione comune. Succede però, e anche in ospedale, che ogni medico si fa le sue linee guida con uno spreco di risorse e non si riesce mai a vedere l’efficacia di un trattamento.



Perché succede?

Oggi medico ha il suo modo di fare, non c’è un meccanismo comune del lavorare sul territorio come si fa in ospedale dove si seguono dei protocolli comuni perché c’è la vicinanza. Sul territorio ogni medico è una monade autonomo che si comporta a modo suo, manca un coordinamento organizzativo ma anche culturale, come dicevo.

Pensando all’emergenza pandemia e guardando al Veneto, si è visto che lì questo sistema c’è e funziona, è così?

La differenza con la Lombardia è che questa ha puntato sull’eccellenza ospedaliera, ed è verissimo. Abbiamo la miglior cardiochirurgia come è vero che da tutta Italia vengono qui per farsi curare, ma non è in questo modo che si cura il 70% del fabbisogno sanitario che è la cronicità. Ipertensione, diabete e tanto altro non hanno bisogno di grandi strutture ma di gestione sul territorio. Nel caso Covit mancando una organizzazione territoriale, lasciando perdere che la Lombardia ha ridotto le spese sulla igiene della sanità pubblica, abbiamo un numero di organizzazioni territoriali che è un terzo di quella del Veneto vale a dire i vaccini, la prevenzione. Sono stati accorpati nelle ASST e sono stati ridotti grandemente di numero.

Questo perché? Motivi economici forse?

Per motivi di riorganizzazione sanitaria dovuti alla riforma Maroni che ha scorporato le ASST dal territorio, nonostante il fatto che il territorio è staccato dall’ospedale ma una parte del territorio è gestito dalle ASST che sono ospedaliere. Non so come abbiamo ragionato. Noi lavoriamo all’interno della ASST Milano Nord che ha 23 poliambulatori e due ospedali di riferimento a Cinisello e a Sesto San Giovanni. E’ un modello che funziona perché permette di seguire il paziente personalmente e poi inviarlo dove si reputa necessario, invece di lasciarlo da solo con una ricettina in mano a vagare per Milano a cercare la struttura.

Ci spieghi meglio.

Io che sono il primo riferimento del paziente ad esempio con l’ipertensione so che deve fare due controlli all’anno  e misurare la pressione. Non ha bisogno dell’eccellenza, sono invece nati migliaia di centri per la ricerca dell’ipertensione che è una patologia che cura il medico. Nella mia struttura, una UCCP, ho un gruppo di medici di medicina generale, siamo sei medici con in carico 9mila pazienti. Il progetto regionale di gestione della cronicità prevede che ci sia un responsabile della cura del paziente che però senza una organizzazione alle spalle perché la legge prevede esami, visite, interventi, il singolo medico non riesce a farlo.

Quindi?

Nel progetto regionale si dice che il medico di base organizza in modo tale che lei abbia le sue scadenze come prevedono le linee guida sanitarie, in varie tempistiche. Io le prenoto tutto quello che le serve e lei lo fa dove le dico di andare perché abbiamo accordi con erogatori. Poi gli esami tornano a me. Noi disponiamo anche di specialisti cardiologi, di pneumologia e altro con cui abbiamo costruito percorsi precisi dove il paziente viene visto e le discutiamo insieme. Siamo come un piccolo ospedale sul territorio ma al paziente gli risolvo tutti i problemi, la logica vorrebbe che l’ospedale fosse collegato a noi. E’ una banalità, ma non funziona così oggi. Inoltre ci sono pazienti anziani che non possono muoversi da casa e io vado da loro. Invece se li mando in un ospedale prima vanno in questo e un medico dice una cosa, poi la volta dopo trovano posto in un altro dove un medico diverso gli dice tutt’altro.

Un sistema che tratta il paziente come un pacco postale. In questo momento di pandemia il vostro sistema cosa garantisce?

Noi non possiamo fare i tamponi ai pazienti, solo chi va al pronto soccorso può. Potevamo seguire i pazienti a casa ma non ci hanno dato gli strumenti. Ad esempio adesso che nessuno sa se chi è guarito non è più contagioso, se non faccio il tampone io non so se tu porti in giro il virus. In Lombardia non sappiamo quanta gente infetta va in giro perché il numero dei tamponi è un quarto di quelli fatti in Veneto.

E’ un’altra concezione di sanità quella veneta?

In Veneto hanno fatto uffici territoriali. Adesso il Lombardia hanno fatto l’USCA, questi poveri ragazzi appena laureati che vanno volontariamente a fare visite a domicilio ma non hanno strumenti, devono scrivere sul portale della Regione che una tale persona ha i sintomi e il paziente non sa dove andare.

La medicina territoriale avrebbe evitato il grande numero di morti in Lombardia?

Certamente. Ospedalizzare significa sempre esporre il paziente ma anche il personale sanitario a rischio infezioni.

(Paolo Vites)

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