La Guerra Fredda e i suoi retroscena nascondono migliaia di storie e di vite che non smettono mai di interessare il cinema e la tv. L’ombra delle spie (titolo italiano di The Courier), il film di Dominic Cooke presentato alla Festa del cinema di Roma e nelle sale dal 17 dicembre, sembra più guardare a quest’ultima e al look delle produzioni BBC.
Racconta la vera storia di Greville Wynne, un rappresentante di commercio che nel 1960 viene contattato dai servizi segreti britannici per agganciare il colonnello Penkovsky, il quale vorrebbe evitare che il regime sovietico di Khrushchev possa sganciare la bomba atomica di cui è in possesso.
Scritto da Tom O’Connor, L’ombra delle spie si immette nel filone spionistico contemporaneo in cui il gioco delle spie all’ombra delle super-potenze ideologiche fa i conti con la Storia e con l’obbligo della storia vera a supporto del racconto, la suspense dell’immaginazione si affianca, spesso si sottomette, a quella della verità (come fece con esiti felici Roger Donaldson in 13 Days sulla crisi missilistica di Cuba).
Dando la prima per assodata, Cooke dovrebbe quindi concentrarsi sulla seconda, aiutato da una produzione adeguata e da attori interessanti (Benedict Cumberbatch, Rachel Brosnahan, Merab Ninize e Jessie Buckley vista da poco in Sto pensando di finirla qui): al regista però interessa soprattutto il ritratto di un personaggio a suo modo patriottico, un uomo comune che in circostanze straordinarie tira fuori astuzia, coraggio e determinazione proprio come una vera spia.
Così il gioco cinematografico si fa però più risaputo, di maniera come la confezione e la ricostruzione storica, dignitoso come un buon tv-movie BBC: il problema non è la mancanza di uno stile o di un’idea di cinema forte, ma la grande difficoltà di Cooke nel trovare le immagini adatte con cui narrare. L’ombra delle spie abbonda di primi e primissimi piani che non esprimono, di un tema musicale di Abel Korzeniowski scopiazzato dal valzer di Shostakovich e ripetuto ad libitum, di un montaggio da spot che normalizza il tutto, che conduce il film in territori rassicuranti per spettatori un po’ pigri.
Così dal film non si trae né la forza della Storia, né la verità del racconto e quanto di buono emerge lo fa per merito degli interpreti. Potrei facilmente rimpiangere lo Spielberg de Il ponte delle spie, ma preferisco suggerirvi di cercare un discreto film Netflix che si aggira nei pressi del film di Cooke: si chiama A mente fredda, ha come sfondo gli scacchi durante la Guerra Fredda e sa gestire tensione e racconto in modo più convincente. Provate a fare un confronto.