“A vedere all’inizio i pazienti affetti da sindrome Long Covid sono rimasto scioccato dal fatto che nessuno li voleva, erano pazienti che alla fine della prima ondata venivano rifiutati da tutti, perché tutti dicevano: ‘Non ci capisco niente, vai a cercarti uno specialista’. Sono un po’ come i reduci dal Vietnam, perché effettivamente non godono di una bella accoglienza. Così molti sono venuti da noi, nel nostro poliambulatorio”.



Amedeo Capetti, specialista in Malattie infettive, dalla fine di aprile del 2020 ha cominciato a seguire i Long Covid, i pazienti non del tutto guariti, all’ospedale Sacco di Milano, un’attività portata avanti “a tratti in due, a tratti da solo e al massimo in tre persone, con la fortuna di un giovane e dinamico medico che ha imbastito tutta la struttura di raccolta dati.



Ma il nostro piccolo ambulatorio fin dall’inizio ha voluto essere aperto a tutti e questo lo rende diverso da tutti gli altri ambulatori Long Covid della Lombardia, accessibili solo ai pazienti che venivano dimessi dai relativi ospedali”. In questi 18 mesi Capetti ha visto passare 1.500 “Covid cronici”, una trincea da cui osservare le “ferite”, profonde e più persistenti, che il virus può infliggere.

Che cosa è emerso in questo anno e mezzo?

Se il Covid può provocare la morte, il Long Covid comporta invece un handicap. Ed è quello che abbiamo visto.

Fin dall’inizio?

All’inizio ad allarmare erano soprattutto i problemi respiratori, ma dopo tre-quattro mesi è subentrata un’altra preoccupazione, che al momento è prevalente.



Quale?

L’impatto, assolutamente imprevisto, del Covid a livello neurologico, a partire da persistenti strascichi di stanchezza. Quando abbiamo cominciato a vedere i primi casi, non riuscivamo a capirne la causa né l’eventuale reversibilità. Si capiva solo che rappresentava un grosso handicap.

Cosa intende dire quando parla di impatto neurologico?

E’ un impatto a 360 gradi: stanchezza, debolezza muscolare, annebbiamento cerebrale, dolori, tachicardia e più preoccupanti, anche se meno frequenti, stati febbrili, che probabilmente sono legati a una disregolazione del centro termoregolatore, perché non si riscontra un’infiammazione o un’autoimmunità. E se si fa la risonanza magnetica al cervello, non si notano danni fisici e cerebrali documentabili.

Quanto è diffusa?

Non ci sono tantissimi pazienti, sono perlopiù operatori sanitari, però siamo davanti a persone che da un anno-un anno e mezzo continuano ad avere 37,8-38°C di febbre ogni sera. È davvero debilitante. Ed è tutta gente che non vede l’ora di poter tornare a lavorare…

Sono soprattutto soggetti che sono stati colpiti dal virus durante la prima ondata? O questo fenomeno è riemerso anche in quelle successive?

E’ un fenomeno che continuiamo a vedere ancora adesso. Il problema del Long Covid, però, è che in alcuni di loro è come se fosse un po’ inficiato dal sospetto che si tratti di una forma post-traumatica, cioè prevalentemente di natura psicologica. Ora, io ritengo che ci possa essere anche una quota rilevante di componente psicologica, ma occorre riconoscerla come un problema reale che la malattia ha generato in migliaia di italiani e affrontarlo adeguatamente.

Ad esempio?

Il nostro neurologo sta attualmente cercando di valutare insieme agli psichiatri, caso per caso, se vi sia e quanta sia la componente psichica in queste manifestazioni neurologiche. Per parte mia, conoscendo molti dei nostri pazienti da prima del Covid, ritengo che la componente di malattia fisica sia assolutamente reale.

Oltre alla stanchezza, il neuro-Covid presenta altre sintomatologie prevalenti?

Sì, quella che gli americani hanno definito brain-fog, la nebbia cerebrale.

Come si manifesta?

Provoca una grande difficoltà a concentrarsi, una difficoltà a ricordare, danneggiando la memoria a breve termine. Sono pazienti che non si ricordano che cosa stanno facendo, anche sul lavoro. Questo ha conseguenze, occupazionali e sociali, non indifferenti: rischiano demansionamenti, se non la perdita del lavoro stesso. E tenga conto che la brain-fog è, tra tutti i sintomi, quello che ha mostrato una minor tendenza alla guarigione spontanea. A distanza di un anno abbiamo visto che l’80% ne soffre ancora.

Si sa come può insorgere questa nebbia cerebrale?

Non lo sappiamo ancora. Di certo nella prima ondata, durante la fase acuta della malattia, questi sintomi non erano emersi, perché la prima urgenza erano le difficoltà respiratorie. Quando questo aspetto è migliorato, il paziente ha cominciato ad accorgersi che non si ricordava più niente, non riusciva a concentrarsi, non riusciva a leggere un libro, non gli venivano nomi e parole…

In questi 22 mesi abbiamo purtroppo imparato che il Covid non colpisce solo i polmoni, ma provoca danni a livello multi-organo. Quali sono, al di là dei polmoni, i più vulnerabili?

Si potrebbe dire cuore, nervi e cervello. Tuttavia la percentuale di persone che anche a distanza di tempo migliora e/o guarisce e i risultati positivi che talora riusciamo ad ottenere con specifici integratori alimenta il sospetto, avvalorato da alcuni studi scientifici, che il Covid vada a interferire col metabolismo delle cellule più che causare specifici danni agli organi, raramente documentabili.

Quanti pazienti avete seguito in tutto? E come?

Nel complesso abbiamo osservato 1.500 pazienti. E per noi non si tratta di una singola visita, perché il nostro approccio è soprattutto clinico: dopo quella iniziale, in cui valutiamo la risposta fisiologica all’infezione – e da quando ci sono, anche ai vaccini -, se poi hanno bisogno, in qualunque momento i pazienti possono richiederne altre ad hoc. Per quanto riguarda invece il follow-up, inviamo loro periodicamente dei questionari, in cui chiediamo se e quali sintomi continuano ad avvertire. La notevole quota di pazienti che rispondono e la frequenza dei contatti ci aiutano a tracciare la dinamica della persistenza dei sintomi della sindrome Long Covid.

All’inizio della pandemia si parlava molto di alterazione di gusto e olfatto. Sono ancora sintomi che persistono a distanza di tempo in chi è stato colpito dal Covid?

Sì, assolutamente. All’inizio insorgono solitamente come anosmia e ageusia, cioè come perdita di odori e sapori. Nei casi fortunati restano così, nei peggiori si trasformano in cacosmia (sentire pessimi odori) e disgeusia (sentire sapori distorti). Un incubo, visto che già ad agosto 2020 abbiamo avuto le prime segnalazioni di persone a cui veniva da vomitare tutti i giorni o che dimagrivano. Questi sintomi, che vanno abbastanza a braccetto ma non sempre, hanno interessato il 35-40% dei pazienti Long Covid. E di questi ancora oggi ne soffre quasi uno su due, il 48%.

Una riduzione lentissima…

Le curve con i numeri dei pazienti affetti da questi sintomi scendono abbastanza rapidamente all’inizio, poi tendono ad appiattirsi. Nei primi 5-6 mesi perde i sintomi il 55-60% dei soggetti ad oggi guariti. Quelli invece che non hanno riguadagnato gusto e olfatto in questo arco di tempo ci mettono molto, molto di più.

Dal punto di vista del genere e delle fasce d’età, chi colpisce di più il Long Covid?

Non ci sono particolari differenze di sesso, tutt’al più si può dire che la stanchezza colpisce di più le donne. L’età media si aggira sui 50 anni, spaziando dai 20 ai 75-80 anni. Ma gli anziani sembrano in generale meno proclivi a sviluppare Long Covid.

Si sono presentati anche soggetti vaccinati che poi si sono contagiati e hanno presentato questi sintomi?

Sì, e questo mi fa pensare come il Covid abbia innescato qualcosa che ora sembra andare avanti per proprio conto. Ma l’analisi statistica che abbiamo condotto suggerisce che i vaccini abbiano apportato qualche beneficio su dolori muscolari, ageusia e anosmia. Sulla stanchezza invece no.

Gli ultimi pazienti che sono venuti da voi presentano qualche segnale preoccupante? Si manifestano nuovi sintomi legati alle varianti?

No, le solite cose. Anche se non frequentissimi, ora arrivano soggetti con problemi di equilibrio, con scarsa cognizione della posizione del proprio corpo nello spazio.

Come vivono i Long Covid la loro condizione?

Ho una grandissima ammirazione nei loro confronti. I nostri pazienti arrivano da tutta Italia e per loro il rapporto umano, la possibilità di incontrare una faccia amica, il sentirsi presi in considerazione diventano un punto di forza.

Dal punto di vista scientifico i Long Covid vi hanno aiutato a capire qualcosa in più sul virus?

Alcune cose le abbiamo capite, ma sono un po’ disarmanti. Per esempio, sul cuore: i sintomi suggeriscono una disfunzione del nervo preposto a rallentare la frequenza cardiaca, ma di che natura possa essere questo danno e quanto possa durare ancora non ci è noto. Resta molta strada da fare e non è un lavoro solo dell’infettivologo, ma anche del cardiologo, del neurologo, dello pneumologo…

E dal punto di vista immunitario?

L’immunità generata dalla malattia è migliore dell’immunità da vaccino. Ma non possiamo certo augurare a nessuno di ammalarsi di Covid per rimanere immunizzato più a lungo…

Il Long Covid rischia di diventare un problema e un costo per il Servizio sanitario nazionale?

Bisogna convincere le strutture e i responsabili che questo problema ha bisogno di essere affrontato. In questo momento il costo è addossato soprattutto sulle spalle dei pazienti, almeno su quelli che non sono stati ricoverati per Covid, e noi possiamo soltanto cercare di alleviarlo il più possibile, prescrivendo solo ciò che è strettamente necessario. Ma in futuro diventerà un problema, considerato che tendenzialmente il Long Covid interessa il 20% circa dei pazienti che si ammalano. Tutte persone che si troveranno in condizioni di handicap e che avranno bisogno di assistenza.

(Marco Biscella)

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