Il meccanismo alla base del long Covid e delle complicanze cardiache è stato finalmente scoperto. Un “freno” disattivato accidentalmente scatena il fuoco amico, per questo alcune cellule immunitarie, complice l’incontro con il virus Sars-CoV-2, si ritrovano ad aggredire l’organismo. La scoperta è stata fatta dai ricercatori dell’Humanitas tramite uno studio che ha coinvolto pazienti con postumi cardiaci da Covid ed è stato possibile anche grazie al sostegno del ministero dell’Università e Ricerca e della Fondazione Umberto Veronesi Ets. Hanno dimostrato che l’incontro di queste cellule immunitarie con il coronavirus è in grado di spegnere accidentalmente il cosidetto “programma di tolleranza“, un sistema che impedisce le auto-aggressioni. Così le cellule si scatenano contro il tessuto cardiaco. Questo meccanismo può persistere per mesi dopo la guarigione e potrebbe spiegare anche altri sintomi associati al long Covid. I risultati dello studio, pubblicati sulla rivista scientifica Circulation, aprono la strada ad una migliore comprensione di questa sindrome.
“Gli studi ci dicono che la metà dei pazienti ricoverati per Covid con alti livelli di troponina (indicatore di danno al tessuto cardiaco, ndr) presentano anomalie nella risonanza magnetica cardiaca anche a 6 mesi dalla guarigione“, dichiara Gianluigi Condorelli, direttore del dipartimento cardiovascolare di Humanitas, il cui gruppo ha lavorato con quello di Marinos Kallikourdis, a capo del Laboratorio di immunità adattiva, col supporto del team di Marco Francone, responsabile dell’Imaging cardiovascolare. In generale, il danno subito da organi e tessuti dopo il Covid può essere spiegato tramite due fenomeni in grado di coesistere: l’aggressione diretta da parte del virus e il danno collaterale dovuto alla risposta immunitaria scatenata dal virus e poi rivolta contro il tessuto. “Il secondo fenomeno è in grado di spiegare il danneggiamento di tessuti che Sars-CoV-2 non ha attaccato direttamente, pltre a dirci perché questo danno persista anche dopo l’infezione, cioè quando il virus non è più presente, come accade nel Long Covid“, aggiunge Condorelli.
LONG COVID, IN FUTURO ESAME DEL SANGUE PER SCOPRIRE CHI È A RISCHIO?
Ma di recente sono usciti altri risultati importanti sul long Covid. Sulla rivista scientifica Nature Medicine è stato pubblicato uno studio che spiega come un esame del sangue possa essere in grado di mostrare se questa sindrome è imminente. Lo psichiatra Paul Harrison dell’Università di Oxford e il suo team hanno cercato i punti in comune nelle persone che si sono ammalate di Covid durante la prima ondata e che poi hanno sviluppato la sindrome. Hanno scoperto che nel sangue circolano proteine la cui quantità sembra essere correlata al rischio di non guarire dall’infezione da Covid anche dopo un anno. Una scoperta banale? In realtà, apre alla possibilità in futuro di sviluppare un test per stimare quanto è alto il loro rischio di sviluppare il long Covid. Epidemiologi, infettivologi, neurologi e altri medicilavorano da tempo sui possibili fattori di rischio. Hanno scoperto che le persone il cui sistema immunitario è indebolito, così come gli anziani, persone in sovrappeso o diabetici, appartengono al gruppo che ha più probabilità di altri di sviluppare la sindrome.
Lo stesso vale per i pazienti con sistema cardiovascolare indebolito, spesso associato all’età, al peso e al diabete. Di questo gruppo fanno parte anche coloro che soffrono di malattie mentali o psichiatriche e le donne, sovrarappresentate in tutti i gruppi vulnerabili. Gli scienziati britannici, anziché monitorare le persone che hanno avuto il Covid per mesi e anni, hanno esaminato le cartelle cliniche di 1.837 pazienti ricoverati in un ospedale del Regno Unito con Covid tra il 29 gennaio 2020 e il 20 novembre 2021. Hanno avuto a disposizione i campioni di sangue dei pazienti ed erano ancora in contatto con i loro pazienti 6 e 12 mesi dopo la malattia vera e propria. Inoltre, hanno controllato le loro prestazioni, sia quelle oggettivamente misurabili che quelle soggettivamente percepite.
LONG COVID, SCOPERTI I MARCATORI NEL SANGUE
Come riportato da Welt, i ricercatori hanno selezionato 6 valori dai campioni di sangue che sono associati a perdite cognitive, ad esempio dopo ictus o nella malattia di Alzheimer. Ad esempio, il marcatore dell’infiammazione CRP (proteina C-reattiva) o il numero di leucociti e piastrine nel sangue e due proteine chiamate fibrinogeno e D-dimero, anch’esse associate all’infiammazione e alla coagulazione del sangue. Un approccio abbastanza plausibile, perché il rischio di sviluppare demenza o Alzheimer aumenta significativamente dopo un’infezione Covid. Lo stesso team di Paul Harrison è stato in grado di dimostrare un anno fa che il rischio di ictus, depressione, Parkinson ma anche demenza rimane aumentato per due anni e più dopo un’infezione da Covid trattata in ospedale.
I ricercatori si sono concentrati sulle anomalie nei parametri del sangue che svolgono un ruolo nei processi infiammatori, scoprendo che mentre tutti i parametri dell’infiammazione erano elevati durante un’infezione, come previsto, se i valori del fibrinogeno aumentavano particolarmente durante l’infezione, i pazienti spesso continuavano a soffrire di perdite di prestazioni misurabili e percepite anche dopo un anno. Quindi, se la proteina D-dimero era presente in concentrazioni elevate, i pazienti riferivano i loro disturbi percepiti soggettivamente, anche dopo 6 e 12 mesi. I ricercatori hanno anche esaminato le cartelle cliniche di quasi 18mila pazienti Usa e confrontato i valori di laboratorio con le condizioni dopo l’infezione e con i dati dei pazienti prima della pandemia. In effetti, sono riusciti a confermare in larga misura i loro dati. Gli autori dello studio ipotizzano che il fibrinogeno stesso entri nel cervello, inneschi una catena di reazioni immunitarie e possa quindi guidare anche la malattia di Alzheimer, ma si tratta appunto di ipotesi.