Lungo una traiettoria di progressivo disorientamento, le diverse autorità di governo del Paese sembrano non saper resistere al richiamo del lockdown integrale: anche se – a fianco degli esperti che premono per “chiudere tutto” – sono numerose e qualificate le voci scientifiche che sconsigliano una nuova amputazione della vita di 60 milioni di italiani. Un provvedimento che verrebbe assunto – ancora una volta – senza una diagnosi approfondita, senza una prognosi corretta, senza indicazioni terapeutiche coerenti, focalizzate e mirate. Un intervento di chirurgia d’urgenza ad alto rischio, effettuato senza anestesia. Un atto forse inutile, certamente eccessivo.
Siamo una collettività altamente organizzata che ha costruito una rete a maglie molto strette attorno ai nodi di relazione fra le persone. Recidere i collegamenti senza metodo – senza knowledge della realtà – significa minare la tenuta della rete stessa: con effetti incerti sullo sviluppo epidemiologico e conseguenze socioeconomiche potenzialmente devastanti.
I numerosi Dpcm che si sono succeduti dopo l’estate hanno segnato un’intensificazione di divieti indifferenziati e “a clava”, in rincorsa sempre affannosa del bollettino dei contagi. Gli esiti sono da settimane sotto gli occhi di tutti: la nuova accelerazione del contagio non è stata minimamente contrastata, mentre la vita delle persone – anzitutto di imprenditori e lavoratori, di insegnanti e studenti – è rientrata in fase di pesante turbolenza. E oltre a nuovi impatti reali immediati (misurati con sintesi rozza ma efficace in miliardi di Pil bruciato) sono visibili anche gli effetti insidiosi sul clima di fiducia: nelle prospettive economiche, nella credibilità istituzionale, quindi nello stesso ordine sociale.
Conservo la memoria personale dell’epidemia influenzale del 1957, cui quella di Covid risale con molte analogie. Era un virus completamente nuovo (A/Singapore/1/57-H1- N1) che si confrontava con una popolazione sensibile, con un grado di contagiosità intermedio e incidenza di polmonite virale. Le persone fragili furono – purtroppo anche allora – bersagli di prima linea dell’epidemia. A differenza di oggi erano tuttavia in assoluto meno rappresentate di oggi: a) per la durata inferiore della vita media; b) per la maggior incidenza preventiva di malattie croniche metaboliche, cardiache e polmonari; c) per la scarsa conoscenza di farmaci immunosoppressori. Come per la “spagnola” di un secolo fa, è passata agli annali come una “malattia dei giovani”: ma la realtà sanitaria era diversa.
Da allora sono comunque trascorsi 60 anni, durante i quali si è generato un enorme fattore di rischio: una crescita della popolazione mondiale da 2,8 miliardi di individui all’attuale numero di 7,8 miliardi. Inoltre, sono stati individuati farmaci di apprezzabile efficacia, a partire dai comuni steroidi. La mortalità, che appare più contenuta nella seconda ondata, colpisce ancora prevalentemente le persone fragili, ma soggette a classificazioni statistiche nettamente diverse rispetto a sessant’anni fa. Da allora in Italia le persone al di sopra di 65 anni sono passate da 4 a 13 milioni e gli “over 75” sono ben sette milioni.
A maggior ragione è divenuta strategica l’azione di prevenzione sociosanitaria: incentrata su buone pratiche consolidate (distanziamento individuale; dispositivi di protezione respiratoria individuale; intensificazione dell’igiene personale). Sono standard efficaci sempre e ovunque: in un’aula scolastica, in un in un impianto produttivo, in un ufficio pubblico, in un negozio, in un cinema, in una chiesa parrocchiale. Soprattutto: su un mezzo pubblico, su ogni anello di un rete di trasporti che impone certamente risorse supplementari e un’organizzazione amministrativa non ordinaria. Ma non c’è alternativa: naturalmente se c’è volontà politica di evitare un nuovo lockdown a rischio di amputazione permanente del sistema-Paese; e se c’è la capacità di utilizzo efficace di una Pa delle dimensioni di quella italiana.
Se lo Stato ha un ruolo cruciale in un’emergenza epocale come quella creatasi, nessuna azione di contrasto all’epidemia sarà efficace, nessuna recovery economica potrà essere avviata celermente senza salti di qualità nei comportamenti individuali: quindi senza la ricerca di nuove dimensioni di responsabilità collettiva. Soltanto così sarà possibile sfuggire alla spirale viziosa che vede spesso l’autorità imporre sulla carta regole sempre più minute e sanzioni sempre più estese e draconiani – almeno sulla carta – e porzioni sempre più vaste di popolazione che trasgrediscono e reagiscono.
Poche regole, chiare, comprensibili, integrabili senza difficoltà dalla coscienza civile di ognuno: appare questo il sentiero che ci può consentire di attraversare una lunga fase di convivenza fra di noi e con il virus. Ed è un impegno che non appare affatto intollerabile: soprattutto nella prospettiva ravvicinata della disponibilità di un vaccino, mentre la ricerca medica sta mettendo a punto farmaci e protocolli terapeutici adeguati. Possiamo farcela: vogliamo ripeterlo noi cittadini a chi ci governa.