È da un’intervista al professor Tito Boeri su Lavoce in capitolo – il primo podcast de lavoce.info, un melting pot di idee sulle politiche per l’Italia e per l’Europa – che vogliamo partire per cercare di fornire un’analisi delle misure di contrasto alla povertà. Si è dell’avviso che l’abolizione della povertà non possa essere uno slogan da poter attuare “a colpi di decreto”, ma è darsi degli obiettivi di contenimento della povertà. Non basta, però, solo confidare nella crescita economica, osserva Boeri.



In tutti i contesti sociali ci saranno sempre delle persone che cadono nelle crepe di uno Stato sociale a maglie troppo larghe, ma questo non può farci perdere di vista la priorità rappresentata dalla riduzione del cuneo fiscale, creando un sistema graduato – come propone Boeri – che vada a decrescere con l’età delle persone, che possa tendere a pagare con le entrate generali dello Stato i contributi sociali dei lavoratori più giovani, compensandoli così anche per il trattamento pensionistico inferiore rispetto a quello della precedente generazione e alleggerendo la differenza tra il costo del lavoro per l’azienda e il salario percepito. L’aumento della retribuzione netta e la riduzione del costo del lavoro conseguente per le imprese – osserva a ragione Boeri – dovrebbero incentivare la maggior creazione di posti di lavoro per i giovani, spingendoli a restare in Italia più che andare all’estero.



Si è dell’avviso che nessuna povertà possa dirsi cancellata con interventi normativi in assenza di un sistema di base ben equilibrato nelle soluzioni e il taglio del cuneo fiscale non può essere più rinviato. Suonava roboante, nello scorso autunno, poco prima dell’approvazione della Nota di aggiornamento del Def, il proclama dell’allora ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, secondo cui in Italia, con il reddito di cittadinanza e la pensione di cittadinanza, si sarebbe abolita la povertà. Già nel 1942 in “Abolire la miseria” Ernesto Rossi proponeva di poter disporre di alloggio, quantità minime di cibo e vestiario. Dopo 60 anni esatti, Tito Boeri e Roberto Perotti pubblicano “Meno pensioni più welfare”, suggerendo come fosse proprio il reddito minimo garantito lo strumento migliore per raggiungere i meno abbienti nella forma di strategie di inserimento dei beneficiari nel mercato del lavoro quali accesso condizionato in base al reddito e al patrimonio, maggiorazione per i figli a carico e analoghe misure di contrasto alla povertà, tra l’altro in un momento storico in cui non si disponeva di strumenti di protezione sociale se non nella forma di trasferimenti selettivi sulla base di condizioni categoriali, cassa integrazione o sussidi ordinari di disoccupazione.



Lucido l’excursus del professor Boeri, secondo cui in Italia si è avuto un impoverimento generalizzato a cui si è accompagnato un aumento delle diseguaglianze durante la crisi del 1991-92; a essere mutata negli anni è la composizione delle persone più povere, a farne i conti soprattutto giovani e immigrati. Quelle che hanno resistito meglio sono state le fasce di popolazione più anziane, i pensionati, anche perché non può ignorarsi lo storico ruolo che in Italia ha avuto e ha la famiglia come ammortizzatore sociale. Con il Reddito di inclusione, attivo dal 2017 al 2019, si è messo fine a quei requisiti di natura occupazionale o categoriale del passato, in favore di un reddito al di sotto di soglie prestabilite con la maturata consapevolezza, in fatto di architettura istituzionale, del ruolo che hanno i Comuni, nella loro capacità di raggiungere i beneficiari, nella possibilità di potersi interfacciare con bisogni multidimensionali, non solo di ricerca di un lavoro, ma anche e talvolta soprattutto problemi di marginalità sociale, anche per mezzo della rete di associazionismo a livello locale. Unica nota dolente, i due miliardi annui, decisamente troppo pochi.

Due miliardi del Rei, a cui si aggiungono altri 6 miliardi, determinando il più ampio trasferimento di risorse pubbliche di cui si ha memoria. Ma – osserva l’ex presidente Inps – sono molte le lacune sia in termini di architettura che di implementazione della misura del Reddito di cittadinanza. Prima di tutto, si sono privilegiati singoli componenti piuttosto che famiglie numerose, che sono quelle maggiormente vulnerabili; bisogna, poi, vedere come praticamente i navigator opereranno e come andranno a integrarsi con le strutture preesistenti dei Centri per l’impiego; come possa essere sanata la mancanza di incentivi automatici alla ricerca del lavoro che sono presenti, invece, nella esperienze internazionali di questo tipo.

Altro problema resta quello relativo al marginale coinvolgimento dei Comuni nell’assistenza multidimensionale, che va ad aggiungersi alle gravi tensioni sociali determinate dal fatto che, in sede di conversione del decreto legge, si è introdotta la clausola secondo cui i cittadini extracomunitari dovranno, per poter continuare a beneficiare della misura, fornire documentazione del Paese di origine circa il possesso dei requisiti patrimoniali e reddituali previsti dalla normativa; Paesi che nella maggior parte dei casi non dispongono dei livelli di funzione pubblica adeguati a far fronte a questo genere di esigenza.

Condivisibile, infine, il punto di vista di Boeri secondo cui bisogna lavorare sulle reali esigenze delle famiglie più numerose, rimettere i Comuni al centro dell’implementazione e ribadire la necessità da parte delle autorità preposte di predisporre adeguati controlli.