Caro direttore,
il convegno sul contrasto all’antisemitismo organizzato giovedì dalla Lega nelle aule del Senato ha offerto una pluralità di spunti, che appaiono meritevoli di qualche annotazione. 

Il leader della Lega Matteo Salvini, senatore in carica, ha ribadito – in una sede istituzionale come Palazzo Giustiniani, che ospita i senatori a vita – il massimo dell’impegno suo e del suo partito contro l’antisemitismo. Lo aveva del resto già chiarito in occasione del recente voto sul varo di una “commissione parlamentare straordinaria per il contrasto al linguaggio d’odio” promossa dalla senatrice a vita Liliana Segre. La Lega si è astenuta allora perché la commissione non appariva focalizzata sull’antisemitismo: in quel caso Salvini avrebbe votato immediatamente a favore.



Salvini, in secondo luogo, è parso prospettare lui, fin d’ora, uno sbocco sostanziale per i lavori della commissione Segre: una proposta di legge per il contrasto all’antisemitismo in Italia. L’ex vicepremier ha fatto accenno esplicito a un percorso legislativo e di governo in sviluppo in un altro Paese Ue come l’Austria.



A cavallo di Capodanno, il Parlamento di Vienna ha votato all’unanimità una risoluzione che impegna il nuovo governo del cancelliere Sebastian Kurz a combattere antisemitismo e antisionismo. E il primo passo del governo Kurz si profila l’impegno a bloccare ogni forma di aiuto statale a organizzazioni che pratichino o sostengano la cosiddetta “strategia BDS” (Boicottaggio–Disinvestimento–Sanzioni) contro lo Stato di Israele. 

L’applicazione piena di questo impegno politico è alla base dell’executive order emanato lo scorso 11 dicembre dal presidente americano Donald Trump, all’indomani di un’ondata di aggressioni antisemite nell’area di New York. Il decreto – ricondotto direttamente al Civil Right Act del 1964, esito delle campagne libertarie guidate da Martin Luther King – prevede la revoca di ogni finanziamento federale ai campus universitari che non garantiscano un impegno reale nel contrasto di antisemitismo e antisionismo, anche nello stroncare le campagne BDS.



Su questo terreno “geopolitico” non è passata inosservata la presenza al convegno della Lega di Dore Gold, ex ambasciatore di Israele all’Onu fino al 2016 e direttore generale del ministero degli Esteri sotto il governo del premier Benjamin Netanyahu. “Ho apprezzato come ognuno abbia preso il tema dell’antisemitismo molto seriamente”, ha detto Gold in un’intervista a margine. “Quando qualcuno ci tende la mano è giusto collaborare e non ho dubbi sulla sincerità di Salvini”. Interpellato sul fatto che la senatrice Segre ha declinato l’invito della Lega, Gold (attuale presidente del Jerusalem Center for Public Affairs) ha detto: “Non voglio essere annegato nella politica interna italiana”.

Fra i leader della comunità ebraica italiana che hanno deciso di non aderire all’invito di Salvini, Noemi Di Segni (presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane) non ha però mantenuto un riserbo stretto. In un forum tenutosi nella stessa giornata di giovedì in avvicinamento alla Giornata della Memoria, Di Segni ha sottolineato che “il governo Conte è stato stabile e volonteroso fin dall’inizio, riconoscendo che l’antisemitismo non è una malattia che riguarda il mondo ebraico ma tutta la società italiana. Quindi la nomina di Milena Santerini a coordinatrice nazionale per la lotta contro l’antisemitismo per noi è importantissima”.

La presidente Ucei ha sottolineato fra l’altro l’urgenza di togliere ogni “legittimazione” alle iniziative antisemite dei “gruppi di estrema destra che esistono e sono ben organizzati”. È parsa questa una riflessione non priva di profilo politico: soprattutto perché più che virtualmente rivolta alla contemporanea manifestazione della Lega. È infatti difficile non cogliere nella posizione della Di Segni – motivata sul piano civile – una prospettiva politica oggettiva: dalla comunità ebraica italiana continuerà a non giungere alcun accredito verso l’impegno dichiarato da Salvini fino a che non maturerà nella Lega una presa di distanze dalle forze politiche contigue ai “gruppi di estrema destra”. E mentre è ancora fresca la disfatta elettorale del Labour britannico investito dalle accuse di antisemitismo, appare molto significativo lo stesso “caso austriaco” citato da Salvini. 

Vienna è infatti reduce da una fase politicamente molto movimentata. Kurz ha debuttato poco più che trentenne, con un netto successo elettorale alla guida di una forza di centro moderato come l’Övp austriaco (affiliato al Ppe). Nel 2017 Kurz è asceso al premierato alla guida di una coalizione estesa anche all’Fpö, formazione di destra xenofoba. Il leader dell’Fpö Heinz–Christian Strache è stato per oltre un anno vicecancelliere: meritando peraltro a Kurz (e all’Austria) sospetti e critiche anche nell’atteggiamento verso il razzismo antisemita.

Alla vigilia del voto europeo della scorsa primavera, Strache è stato colpito dal cosidetto “Ibizagate”. I siti web di due media tedeschi (il quotidiano bavarese Suddeutsche Zeitung, vicino alla Csu, e il settimanale progressista Spiegel) hanno pubblicato un video precedente alle elezioni austriache del 2017 in cui Strache si intratteneva con una donna (sedicente parente di un’oligarca russo, si è appreso poi in realtà una “giornalista d’inchiesta” russa) che prometteva aiuti finanziari. Lo scandalo ha travolto il governo di centrodestra: Strache è stato costretto ad abbandonare la politica e Kurz ha dovuto indire elezioni anticipate.  

Al voto dello scorso 29 settembre l’Övp ha rafforzato la sua posizione di maggioranza relativa, mentre Fpö ha dimezzato il suo risultato e si è ritrovato isolato all’opposizione nell’estrema destra. Due mesi di laboriose trattative hanno infine portato Kurz ad annunciare un’inedita coalizione fra Övp e i Grünen austriaci, in netta crescita elettorale. E molti osservatori internazionali hanno subito additato la soluzione austriaca come modello per altri Paesi europei dai assetti politici divenuti obsoleti e instabili: prima fra tutte la Germania.

Un’ultima annotazione merita probabilmente anche una chiara presa di posizione di Di Segni – che ha militato in passato nell’Israel Defence Force – sul confine delicato fra “antisemitismo” e “antisionismo”. “È lecito criticare le politiche di Israele come di qualsiasi altro Stato” ha detto. “Altra cosa è attribuire allo Stato di Israele una serie di comportamenti di violenze o addirittura atteggiamenti nazisti nei confronti dei palestinesi. Questo non esprime una critica ma una posizione di non accettazione di Israele”. Due mesi fa, in un’intervista, la senatrice Segre aveva affermato: “Non sono un’esperta ed escludo di dover rispondere, in quanto ebrea, di quello che fa Israele. Il mio disagio fu espresso magistralmente da Clara Sereni in un articolo su l’Unità, ‘La colpa di essere Ebrea’, del 16 gennaio 2006. Raccontava di essere stata costretta a esprimersi sulla questione mediorientale e di avere dovuto quasi giustificarsi di essere ebrea. ‘Non dovrei più farlo’, sottolineava. Fatta questa premessa, anche io ho le mie idee: ho un grande rimpianto per Yitzhak Rabin e ho molto sperato di vedere la pace basata sul principio ‘due popoli, due Stati’”.