Il Louvre, tra i più celebri e frequentanti musei parigini al mondo, ha avanzato l’intenzione di costituirsi parte civile nel processo in appello di Jean-Luc Martinez per aver danneggiato la sua immagine internazionale. Al centro del danneggiamento ci sarebbe l’acquisto per la sede museale di Abu Dhabi, tra il 2014 e il 2018, di sette oggetti egizi antichi, pagati un totale di 50 milioni di euro e che si sono, poi, rivelati di dubbia provenienza. Il caso, scoperto nel maggio scorso, avrebbe scosso la comunità museale mondiale ed ovviamente la stessa dirigenza del Louvre parigino, e si è concluso con l’arresto e l’incriminazione dell’allora direttore Jean-Luc Martinez con l’accusa di “complicità in frode” e “riciclaggio mediante falsa agevolazione della provenienza di bene da un crimine o da un delitto”.



Le antichità rubate, il processo contro Martinez e la posizione del Louvre

Dopo la prima incriminazione dell’ex direttore del Louvre Jean-Luc Martinez, quest’ultimo ha deciso di presentare ricorso alla Corte Suprema francese, sostenendo la sua innocenza rispetto alle accuse per il traffico d’antichità. Di contro, dopo il suo annuncio, è arrivato anche quello del museo parigino, intenzionato a costituirsi parte civile contro l’ex direttore, sottolineando le ripercussioni negative della vicenda sulla sua reputazione e sul suo marchio noto ed acclamato in tutto il mondo.



Dalle indagini svolte fino a questo punto sul traffico d’antichità all’interno del Louvre Abu Dhabi è emerso come i sette oggetti egizi contestati siano parte di un più vasto ed articolato traffico internazionale. Questi erano passati per le mani del commerciante libanese-tedesco Roben Dib, rappresentante di una famiglia di antiquari attualmente sotto indagine. Christophe Kunicki, un esperto di archeologia, e suo marito, Richard Semper, avevano poi venduto quei sette oggetti al Louvre Abu Dhabi, sostenendone la completa autenticità. Dib a processo avrebbe ammesso di aver contraffatto almeno 3 documenti, tra cui quello che riguardava una stele firmata da Tutankhamon, pezzo forte della collezione venduta al museo francese, ma sostenendo che nessuno degli oggetti avesse un’origine illegale.

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