Umberto Lucentini, il suo libro su Paolo Borsellino, avrebbe dovuto scriverlo a quattro mani con il giudice. Eppure il cronista de Il Giornale di Sicilia si è trovato a doverlo fare da solo dopo la morte nella strage di via D’Amelio. A trent’anni dalla tragedia, il libro torna sugli scaffali arricchito da nuove testimonianze e con le firme dei figli Lucia, Manfredi e Fiammetta, insieme a Lucentini. Tanti gli interrogativi, a partire dai mandanti, come racconta il giornalista a Famiglia Cristiana: “Proprio così. I figli di Borsellino chiedono da troppo tempo che venga fatta luce su misteri e omissioni nelle indagini che precedono e seguono la strage. L’avvocato Fabio Trizzino, il marito di Lucia, dal 2015 segue come parte civile dei figli le indagini e i processi ancora aperti dopo che è stato certificato il clamoroso depistaggio costruito con le dichiarazioni del falso pentito Vincenzo Scarantino”.



Tante le questioni irrisolte che ancora una volta, nonostante siano passati trent’anni, il libro si trova ad affrontare: “Le domande senza risposta sono ancora troppe: perché, in Procura a Palermo, Borsellino era ostacolato nel suo lavoro? Chi e perché non è intervenuto, prima del 19 luglio, per istituire la zona rimozione delle auto in via D’Amelio, dove Borsellino andava a trovare la madre, consentendo così ai mafiosi di parcheggiare la Fiat 126 carica di esplosivo? Chi non ha presidiato, a fini delle indagini, via D’Amelio? Chi ha permesso che dalla borsa del magistrato sparisse l’agenda rossa che portava sempre con sé e dove scriveva i suoi appunti? Chi ha consentito, come da sentenza, che Scarantino fosse “determinato a mentire”?».



“I figli chiedono la verità”

Nei 57 giorni tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio, Borsellino stava indagando su nuove questioni: dall’agguato all’amico e collega agli appalti. Giorni cruciali, quelli, che nel libro vengono libercoli da Lucentini: “Negli ultimi giorni di vita, Borsellino seguiva diverse indagini, interrogava nuovi “pentiti”, cercava la verità sull’attentato all’amico e collega Giovanni Falcone, voleva ridare impulso a delicate inchieste come per esempio quella su mafia e appalti. La cronologia di quei 57 giorni parla da sola, per questo ho voluto che ci fosse”.



Al libro hanno lavorato anche i tre figli di Borsellino: “Lucia, Manfredi e Fiammetta tracciano un bilancio di questi trent’anni. Parlano di una “speranza che oggi convive più faticosamente, con il peso di questa immensa perdita”. Del depistaggio come “schiaffo a nostro padre”, l’ennesimo “colpo oltre che da vivo anche da morto”. Del loro “deciso e inarrestabile impegno” per conoscere la verità”. Lo scrittore, a Famiglia Cristiana, ricorda poi anche il giorno in cui conobbe Borsellino e i ricordi condivisi con lui: “Ce ne sono tanti. Borsellino credeva nei giovani, con i fatti e non a parole. Penso per esempio al nostro primo incontro a Marsala. Dovevo intervistarlo per il settimanale Europeo: mi ha dedicato un tempo davvero infinito”.