Il penultimo atto dell’epopea tragicomica di Charlot, fortunato personaggio-maschera scaturito dal genio di Charlie Chaplin, autore, attore, regista, produttore e musicista tra i più ispirati e celebri della storia del cinema, si compiva novant’anni fa con l’uscita di Luci della Città (City Lights, 1931). L’ultimo sarà con Tempi Moderni (Modern Times, 1936), il capolavoro di una vita per Chaplin. Le prime apparizioni di Charlot risalgono invece alle comiche slapstick prodotte dagli studi Keystone del pioniere Mack Sennett, nel 1910. Comiche brevi – dai dieci ai quindici minuti – sostenute da un debolissimo impianto narrativo che è solo pretesto, laddove il vero testo sono le gag visive, immesse a profusione e di tutti i tipi: acrobazie, lotte, furti, fughe e inseguimenti, voli, cadute e (ovviamente) torte in faccia, il tutto in un vortice di movimento continuo e anarchico. Una sorta di cinema laboratorio, alla stregua di un meraviglioso giocattolo, nel quale Chaplin mette progressivamente a punto il personaggio del vagabondo battagliero dall’animo nobile, soprannominato Charlot dai suoi ammiratori francesi. 



Momento di fondamentale spartiacque per questo cinema, il comico classico, fu poi rappresentato dall’introduzione del sonoro, cui non tutti i suoi personaggi/attori/autori sopravvissero. Ad esempio, per il grande Buster Keaton fu una tragedia, mentre gli ineffabili Laurel & Hardy vi si adeguarono comodi comodi, come “due piselli nel loro baccello”.



Per Charlie Chaplin invece fu un travaglio creativo, dal quale alla fine uscì vittorioso. Come disse il regista pioniere del montaggio narrativo David W. Griffith, Chaplin “non aveva nulla contro il sonoro in sé, quel che cercava di fare era conservare il silenzio di Charlot”. 

E infatti, con il sonoro già introdotto da alcuni anni (Il Cantante di Jazz, del 1927 il primo), Chaplin non abbandona la pantomima muta, mantenendo ancora il suo Charlot dentro i confini di tale modalità recitativa. Anche per questo le riprese di Luci della Città furono più lunghe e laboriose del solito. Chaplin impiegò tre anni nella lavorazione, impressionò – come e più del solito – una quantità spropositata di pellicola, arrivò a ripetere singole scene anche trecento volte, pretendendo dagli attori come da se stesso la perfezione assoluta. Ma alla fine il risultato fu di primissimo livello, qualcosa che è rimasto nella storia per singolare connubio di profondità e leggerezza, oltre a essere stato un trionfo mondiale all’epoca della sua uscita. 



La storia della fioraia cieca e del suo benefattore vagabondo, che lei crede un miliardario e vede, una volta guarita grazie a lui, come in realtà è solo nella celeberrima sequenza finale, è abilmente costruita da Chaplin secondo il consueto – per i suoi lungometraggi degli anni Trenta – intreccio di farsa comica e melodramma. Con esso, il regista esplora attraverso il disincanto della sua maschera Charlot il cinismo e la falsità della società americana dell’epoca, o almeno di parte di essa. Come non mai, in questo film il tema diventa quello della contrapposizione: da una parte l’amore del vagabondo per la fioraia cieca, dall’altro il suo intromettersi casuale e beffardo nel mondo dei ricchi (il miliardario che lo tratta da amico solo quando è ubriaco), evidenziandone le grottesche contraddizioni. 

Diverse le sequenze comiche divenute celebri, su tutte quella del fischietto inghiottito da Charlot alla festa del miliardario, che non a caso è sonora ma senza il parlato. Irriverente e programmatico l’inizio del film, dove una delegazione di notabili inaugura la statua della Giustizia, scoprendo su di essa uno Charlot addormentato e sognante.

Negli ultimi anni di vita Charlie Chaplin ha spesso affermato di voler essere ricordato soltanto come l’autore del film La Febbre dell’Oro (1925), forse perché è in quel film che troviamo lo Charlot più solo, trasandato e affamato come il giovane Charlie fu nei sobborghi londinesi, e come lui capace di riscattarsi socialmente con il proprio lavoro e il proprio coraggio. Ma l’indole del personaggio la vediamo compiuta solo nell’ultima scena di Luci della Città, quando con il solo sguardo sa trasmettere un mondo di emozioni e significati, nell’ultima sconvolgente inquadratura del film. 

Capolavoro dei tempi in cui il cinema, muto in bianco e nero e in frame 4:3, non era altro che musica del movimento, dello spazio e del tempo, Luci della Città risulta al pubblico odierno più giovane – ne siamo certi – obsoleto alla stregua di uno smartphone superato da un nuovo modello. Fenomeno inevitabile nell’era dell’immagine a-significante di internet, dei telefonini con fotocamera, dei videogiochi iperrealistici e della tv onnipresente, dentro la quale perfino lo sport di oggi (in particolare il calcio) assume le sembianze di un insensato videogioco. Peccato che sia il muto che il bianco e nero siano invece un segno visivo/culturale di un’epoca e non le caratteristiche di un prodotto di consumo vecchio, quindi superato. 

Il cinema che è stato di Chaplin come di molti altri sta purtroppo scomparendo, lasciando il posto a un futuro digitale di cui ancora non si comprende la portata stilistico-semantica. Sarà senz’altro comprensibile e piacevole per i suoi coevi, ma per molti di noi appare fin d’ora privo di grazia e di radici. 

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