Le vicende dell’Ucraina mi hanno gettato in una condizione di prostrazione psicologica e di insicurezza non solo politica ma anche intellettuale, in una misura che mai prima avevo conosciuto.
Mi sento diviso, profondamente diviso, tra la convinzione che l’Occidente, gli Usa, la Nato, e la stessa Ue abbiano responsabilità gravissime nell’origine di questa crisi, e la solidarietà, che sempre più avverto, verso la resistenza del popolo ucraino; tra la difficoltà di condividere la decisione delle cancellerie occidentali di sostenere l’Ucraina militarmente e di coltivarne l’intransigenza nel nome della libertà e della democrazia e la tenacia del suo popolo nel difendere strenuamente la sua terra.
Anzi e più precisamente, il mio malessere non dipende dalla coesistenza, in me, di questi due opposti sentimenti, che ci può stare e che mi sembra anche proficua. Dipende, invece, dalla sensazione che la loro coesistenza costituisca, piuttosto, il segno di una inadeguatezza del mio pensiero, l’espressine di un “conservatorismo” verso il mondo e la sua intelligenza che rischia di provocarmi una “disconnessione” dai cambiamenti, dei quali, invece, non ci sarebbe ormai che da prendere definitivamente atto: l’idea della comprensione dei processi storici e della considerazione del punto di vista dell’altro hanno ceduto il campo ad un intendimento dei diritti umani e dei valori occidentali che non tollera più le distinzioni che verrebbero dalla storia e dagli interessi materiali che in essa si muovono.
Alla base della mia condizione sta proprio questa semplificazione e la sensazione di disconnessione che la sua ineluttabilità mi procura.
Non è che non veda più che la storia e gli interessi materiali mostrano il carattere non veritiero, ideologico e propagandistico della semplificazione che mi sembra domini il giudizio e l’azione intorno alla vicenda dell’Ucraina. È, piuttosto, che il mondo si muove ormai secondo questa semplificazione e che, perciò, pensare in modo diverso sembra ridurmi ad una spiaggia dove si depositano i relitti inservibili di una grande tempesta: l’esecrazione della violenza, individuale e militare, e la declamazione dei principi di libertà e democrazia sembrano richiedere di oscurare del tutto, di azzerare la strumentalità di chi di essi spesso, ed anche in questa congiuntura drammatica, si giova e fanno sentire “senza patria” chi non li sostenga in modo – è questo il punto – incondizionato, e cioè deponendo ogni domanda.
Ma provo a spiegarmi nello specifico.
La mia convinzione è che l’Occidente, fin dai tempi di Gorbaciov, abbia “giocato sporco”: ha conservato la Nato anche dopo il crollo dell’Urss con una funzione ormai solo offensiva o – meglio – intimidatoria, non è innocente rispetto al colpo di Stato che insediò Eltsin e la sua messa in liquidazione di quel che restava della potenza russa e della sua economia, ha continuato senza sosta l’accerchiamento della Russia (reclutando alla Nato Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Slovacchia, Romania, ecc.) fino all’odierna contesa sull’estensione dell’Alleanza atlantica anche all’Ucraina. E soprattutto che questo ha fatto nell’intento non più di contrastare il “cattivo esempio” dell’economia di Stato e del totalitarismo, bensì, prima, per sancire il governo unilaterale del mondo e, poi (ossia dopo l’avvento della Cina che quel disegno ha reso impraticabile), mirando al controllo delle enormi risorse naturali della Russia ed al loro arruolamento nella strategia di contenimento dell’economia cinese.
La richiesta di Putin di ricreare una fascia intermedia di neutralità tra Occidente e Russia ha, per l’appunto, questa motivazione: lo dicono tutti gli analisti geopolitici e militari, e lo hanno apertamente dichiarato nelle interviste di questi giorni anche generali italiani che hanno ricoperto ruoli di rilievo nella Nato.
E tuttavia tutto questo sembra, ora, non dover contare alcunché: Putin è un autocrate, la Russia non è una democrazia compiuta, e dunque questo deve bastare a far ritenere che una politica, internazionale e militare, che “tagli le unghie” all’uno e all’altra, sia una politica per la libertà e la democrazia volta, per di più, a scongiurare un’incombente minaccia che da est verrebbe alla stessa integrità dell’Europa ed a far apparire come insensibile a questi valori chi si soffermasse su simili considerazioni e nutrisse dubbi circa gli interessi geopolitici ed economici che, verosimilmente, dietro queste sacrosante bandiere anche oggi si annidano.
Eppure sarebbero vere entrambe le cose: che “giustificare” Putin e la Russia vale un appoggio ad un autocrate e ad un regime semi-illiberale e che, tuttavia, sposare senza esitazione la politica del loro contenimento “costi quel che costi”, anzi il disegno di una “punizione esemplare” che abbatta quel paese e l’autocrate che lo governa, rappresenta, al tempo stesso, cedere alla strumentalizzazione di valori universali a interessi materiali, di parte, che non hanno nomi e cognomi solo per chi non li vuol vedere.
L’invasione dell’Ucraina e l’escalation delle operazioni belliche hanno drammatizzato questa antinomia: con quale animo si può non stare con l’Occidente libero e democratico contro la guerra e la sopraffazione?
Siamo, dunque, ad un ineludibile bivio dove la strada del Bene si separa da quella del Male, senza che si diano altre vie?
Così dice, quasi minacciosamente, la “propaganda” che viene insinuandosi nei mass-media, i quali, in questi tristi giorni, sembrano sempre più tacitare le opinioni “dubbiose”. E questo sembrerebbero suggerire anche taluni provvedimenti delle autorità europee che hanno vietato la diffusione nella Ue dei due giornali russi che in essa si pubblicano (e che, a loro volta, facevano, per lo più, propaganda contraria): come se la libertà di stampa, ed anche di propaganda, non riguardasse pure, anzi soprattutto, l’antagonista.
E d’altronde, proprio questo ha detto, pressoché con le stesse parole, il presidente Draghi nella comunicazione alle Camere: lasciamo stare la storia che può dar luogo ad opinioni diverse, la storia non serve perché divide mentre bisogna solo essere uniti.
Ragione e coscienza farebbero rifiutare questo bivio. E indurrebbero a chiedersi se non imboccarlo significhi veramente “disertare”. E pongono una domanda cruciale: c’è ancora speranza per una posizione terza che si auguri il silenzio delle armi ed una soluzione diplomatica (che passa solo per una “via di fuga” per la Russia), per un pacifismo che condanni con fermezza la guerra e che, però, sappia anche vedere quel che ha contribuito a porne le premesse?
Per questa domanda passa la differenza tra vincere la guerra e conquistare la pace.
La mia impressione è che per questa speranza parli oggi solo Francesco.
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