Ho incontrato e dialogato a lungo con un sacerdote ucraino, cattolico di rito bizantino, un monaco basiliano, erede di una tradizione antichissima: è a san Basilio il Grande, dottore della Chiesa, che si rifanno i monaci che hanno cristianizzato la Rus’, a Kyev. Un sacerdote giovane, battezzato di nascosto ancora sotto il regime sovietico, a Leopoli, la sua città, dove ancora vive la sua famiglia, che le bombe non risparmiano, anche se è protesa verso l’Europa, è sempre stata Europa. Un giovane sacerdote che ha scelto di non sposarsi, anche se il rito cui appartiene lo permette, e che piange e opera per la sua gente, dall’Italia.
Gli ho chiesto se lui, che è un uomo di fede, ritiene giusto combattere. Non ha avuto alcuna esitazione. Io esitavo anche solo a porre la domanda, e alla sua affermazione convinta ho paventato il rischio di far coincidere fede e patriottismo, e di giustificare quindi in nome della fede azioni violente, mortifere. Mi ha spiegato senza enfasi, come a seguito di meditazioni profonde, che un cristiano può e deve amare la sua patria, e difenderla, anche in armi se necessario. Può scegliere di consegnarsi al nemico, alzando le mani, scegliere di lasciarsi uccidere. Ma non può scegliere di non difendere i suoi amici, la sua terra.
Mi è tornato in mente Dietrich Bonhoeffer, per il quale la resistenza significava la stessa cosa, e che pagò con la vita la sua adesione all’attentato a Hitler. Per cui la resa era a Dio, cui si sarebbe affidato per il perdono, la resa al destino, non l’arrendersi.
È difficile per noi, cresciuti nella pace, educati alla pace, accettare questo pensiero. È anche facile tirarsi indietro, confondere il pacifismo con la viltà, o con il freno umanissimo della paura. Solo che la pace e il pacifismo seguono strade diverse, dopo aver avuto una diversa origine. Il pacifismo conta sugli sforzi dell’uomo, la pace è un dono, e va domandata, cercata. Il pacifismo ci fa scendere in piazza sdegnati contro le armi, eppure imbracceremmo un fucile per difendere i nostri figli. Il pacifismo talvolta confonde aggressore e aggredito, accomunati nella battaglia, senza distinguere tra vittima e carnefice. Il pacifismo nel nostro tempo è a corrente alternata, e dipende dalle ideologie di appartenenza. Sgorga per alcuni, tace per altri.
Tuttavia, le parole di quel sacerdote, che benedice i suoi compagni che combattono, i soldati del suo paese, mi commuovono e mi inquietano. Scuotono la mia indifferenza pavida, ma turbano. Forse la difesa ha il limite dato dall’esasperazione del conflitto. Forse la difesa in armi si deve fermare, per evitare una violenza maggiore. Forse la resa è eroica e amorevole, per i propri fratelli, se significa fermare la guerra?
Non ho la risposta, tengo viva la domanda, dopo aver ascoltato la ferma posizione di un uomo giusto, di un cristiano fedele come il cardinale Parolin, che sostanzialmente usava le stesse parole del mio amico ucraino, coinvolgendo anche noi, spettatori per cuore o per interesse, nel sostegno armato al popolo aggredito. So che ci è chiesto di fare ogni sforzo politico, e spronare la politica, l’opinione pubblica, per trovare una mediazione, per cercare una via di dialogo. So anche che Dio perdonerà chi in retta coscienza, e domandando pietà, oserà scendere in una trincea per difendere donne e bambini inermi.
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