La guerra in Ucraina ferisce il cuore di ciascuno e devasta l’anima. L’esperienza della nostra impotenza ci lascia smarriti, in quanto se è vero che eccidi e stermini ci sono sempre stati, se è vero che la seconda guerra mondiale, in modo particolare, si è interamente risolta puntando al massacro dei civili inermi e facendo di questi ultimi altrettanti ostaggi umani, ci siamo realmente illusi che questi orrori fossero stati oramai archiviati. Così come abbiamo creduto che l’incendio nell’ex Jugoslavia, gli eccidi in Uganda e le stragi in Siria costituissero delle tragedie immani ma anche periferiche al tempo stesso: degli eventi certamente sanguinosi ed inaccettabili, ma in fondo lontani anni luce dalla nostra cultura e dal nostro mondo, localizzati in un altrove al quale ci sentiamo estranei.



In questo nostro universo di convinzioni acquisite la guerra in Ucraina è arrivata come un alieno, un nuovo Covid che prima di uccidere i corpi, uccide l’umano che è in loro.

In questa guerra mediatica, nella quale i proiettili prendono la forma inedita delle notizie dal fronte che armano la reazione dei consessi internazionali molto meglio di qualsiasi proclama, le bombe dell’informazione cascano anche nel salotto di casa.



Il confronto con il Covid ha segnato un itinerario analogo. Poco più di un anno fa erano le comunicazioni del responsabile della protezione civile ad illustrare ogni sera il bollettino dei decessi, adesso sono le notizie delle stragi che arrivano all’alba e si precisano verso le dodici, servendoci il dolore a tavola, a darci la misura dell’orrore.

Il regime delle chiusure proclamato durante il Covid ha costretto tanto la politica quanto l’economia e l’intera società a camminare tassativamente dentro dei corridoi di vita minima: dai cancelli chiusi delle fabbriche alla didattica a distanza, dal divieto dei funerali a quello delle riunioni di famiglia. Nessuno di noi ha realmente respirato per oltre un anno.



La guerra in Ucraina si impone con un’evidenza ancora più innegabile. Nulla si può pensare, progettare, decidere e scegliere fino a quando si dipende tutti (e tutto) da quanto avviene al fronte. Tutto è passibile di essere messo di nuovo tra parentesi e quindi sospeso, la vita economica come quella politica. 

Non solo l’agenda climatica è rinviata a data da destinarsi, ma lo è anche quella della ripresa, dell’uscita dagli effetti nefasti delle chiusure, del ritorno alla crescita.

Dobbiamo pertanto convivere con una fibrillazione permanente nella quale, ancora una volta, tutto l’essenziale sotteso ad ogni progetto è di fatto sospeso nell’attesa della prossima battaglia.

Ma se la pandemia ci ha intrappolati attraverso un virus senza nessun’altra volontà che quella della propria sopravvivenza, oggi sono invece le scelte consapevoli di uomini concreti ad essere alla base della presente tragedia. Invano possiamo ridurre il tutto a pochi nomi: dietro gli uomini ci sono i popoli che vedono minacciato il loro futuro, o credono di vederlo.

Si pone così il problema essenziale che la pandemia non prevedeva: quello della giustizia.

Siamo tutti intrappolati nella scelta obbligata di una giustizia che precede e scavalca ogni altro principio. Ed il nostro desiderio di giustizia si alimenta degli orrori di ogni giorno, cresce ad ogni vita spezzata, ad ogni innocenza tradita.

I risultati sono devastanti. Si alimenta infatti un circolo infernale dove il conflitto, producendo l’orrore al quotidiano, alimenta un bisogno di giustizia che non può affermarsi senza una solenne resa dei conti.

Ma al di sopra dell’evidenza della giustizia come requisito di ogni pace possibile c’è un’altra evidenza di ordine superiore: quella della verità. Non certo e non tanto quella sulle stragi quotidiane, quanto quella delle responsabilità che hanno preceduto la guerra per anni. Ma è proprio questa verità ad essere lasciata in archivio.

Possiamo ripetere qui, magari a voce alta, il concetto espresso da Giovanni Paolo II nell’omelia del 1 gennaio 1980 per il quale “la verità è la forza della pace” senza essere scambiati per filo-putiniani? Probabilmente no, ed è questo un virus ancora più insidioso, perché è il virus delle porte chiuse, della rinuncia a qualsiasi analisi che possa, anche lontanamente, scalfire l’evidenza dei responsabili dell’orrore quotidiano.

Quello stesso dolore che esplode dietro ogni quotidiana carneficina non concede distinguo: i tempi sono scaduti, la verità c’è già e si riassume nella prepotenza evidente di un invasore dinanzi ad un aggredito. Intorno ad un tale fatto non c’è nulla da cercare, né da analizzare.

L’evidenza di tale affermazione consiglia di deporre la penna: le armi della critica cedono veramente il posto alla critica delle armi. Ma non è più l’esercizio linguistico di un filosofo hegeliano del secondo Ottocento, bensì lo scenario dei fatti, nella loro nitida crudezza come nella loro sconcertante e scandalosa disumanità, a recitarlo ogni giorno.

Eppure ciò non toglie che è la verità ad essere la chiave di volta di ogni negoziato, di ogni incontro possibile. Nessuna pace è possibile occultando responsabilità e connivenze, le armi non possono tacere se una speranza di verità non appare all’orizzonte.

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