La guerra in Ucraina interessa meno, come se i morti e le rovine di giugno catturassero meno l’interesse di quelli di tre mesi fa. I talk e gli speciali televisivi, i dibattiti più o meno validi, attirano sempre meno spettatori che preferiscono cambiare canale. Secondo un’indagine realizzata da un’agenzia indipendente, l’Axios, le interazioni sui social media relative a notizie sulla guerra in Ucraina dai quasi 20 milioni di utenti di fine febbraio, sono scese ai 345mila di fine maggio. In Italia lo speciale giornaliero attivato dal direttore del Tg de La7 Enrico Mentana, sempre a causa della caduta dell’audience, ha sospeso la sua cadenza quotidiana “salvo notizie di portata tale da richiedere un nuovo approfondimento”. Neal Rothschild, direttore di Axios, osserva causticamente come “In un arco di 6 settimane, tra aprile e maggio, c’è stato circa 6 volte più interesse per le storie su Johnny Depp e Amber Heard che sull’Ucraina”.
Il presidente ucraino Zelensky, interrogato da Axios, rileva con preoccupazione che “l’attenzione globale è stata cruciale per l’Ucraina”, ma teme che le persone “si stancheranno”, saranno “ciniche” perché vogliono “qualcosa di nuovo”. “Con il diminuire dell’attenzione, diminuirà anche la pressione sui leader mondiali affinché aiutino l’Ucraina e puniscano la Russia”. La first lady ucraina Olena Zelenska, attraverso Abc News, esorta il popolo degli Stati Uniti a non abituarsi a questa guerra. “Altrimenti rischiamo una guerra senza fine… Non abituatevi al nostro dolore”.
Naturalmente entrambe le interpretazioni sono errate. Le scelte delle persone, quando si ripetono su un campione statisticamente rappresentativo, mostrano un atteggiamento condiviso, un sentire comune che non è mai privo di ragioni di fondo e, proprio per questo, va preso seriamente in considerazione.
Dietro la caduta dell’audience non c’è cinismo, né noia, ma qualcosa di peggiore: la perdita della speranza. Dopo non aver creduto a un’invasione della Russia, si è tutti creduto ad una guerra breve, che si concludesse, magari mestamente, con la parata militare della Federazione Russa nelle strade di Kiev, oppure – ed era la speranza condivisa – con un intervento autorevole delle autorità sovranazionali per avviare subito una trattativa diretta con le autorità ex sovietiche (“una nuova Yalta” scriveva Pietro Sansonetti). Dietro il nostro affollarci davanti ai video ed ai dibattiti non c’era affatto la ricerca del dolore o dello spettacolare – né ancor meno la fuga dalla noia –, bensì e al contrario c’era la speranza di una buona notizia alle porte, dello spalancarsi di una via d’uscita da quella che era e resta una tragica follia.
Con lo scorrere delle settimane la ricerca angosciata di una buona notizia si è andata desolatamente spegnendo, facendo invece emergere il vocabolario stantio, proprio di ogni maledetta guerra, riassumibile nel noto “avanti fino alla vittoria”. Dove ogni avanzamento dell’uno o dell’altro contendente fa riporre immediatamente nel cassetto qualsiasi prospettiva di negoziato.
Al posto della buona notizia che non è mai arrivata sono invece emerse le conseguenze seconde e terze del conflitto, che non sono la mancanza di gas che comincerà a farsi sentire solo fra alcuni mesi, bensì quella del grano che sta già lambendo le aree povere dell’Africa. Guardando le nostre miserie ci eravamo dimenticati di altri ancora più miseri di noi, che pagheranno questa guerra prima di noi pur essendone ben più estranei.
A questo punto ascoltare le informazioni quotidiane di una guerra di logoramento, dove si perderanno vite e si bruceranno risorse, vuol dire entrare in un racconto che non ha più nessuna soluzione, se non quello di aumentare l’angoscia di tutti e di ciascuno. L’invio di armi all’Ucraina, doveroso sul piano dei princìpi, se avrà anche fra i suoi risultati quello di consentire all’esercito ucraino di evitare un’immediata sconfitta, farà anche alzare il livello di fuoco della Federazione Russa, moltiplicando bombardamenti e mobilitando uomini. Resta l’ammissione lucida di un’analista della geopolitica come Lucio Caracciolo che vede questa guerra finire solo quando saranno finiti i combattenti o le munizioni.
Ma per non seguire ora per ora le notizie di questa guerra c’è anche un’altra ragione. Dietro la rinuncia a seguire la cronaca degli avvenimenti – che non possono più contenere una novità, ma la pura routine dei morti e dei disastri – c’è anche la convinzione che si stia combattendo un’altra guerra che si svolge su altri piani, ben più tecnologici. In questa guerra parallela, i droni possono arrivare ad uccidere un singolo generale, i satelliti possono guidare gli attacchi per colpire una nave ammiraglia dotata di tutti i sistemi di autodifesa e gli hacker possono arrivare a bloccare i sistemi informatici di un altro Paese, legandogli le mani senza nemmeno essere costretti a bombardarlo.
Si manifestano così due scenari. Uno visibile, che sembra riportarci alle guerre della prima metà del Novecento, ed un altro, invisibile, che sta già operando nelle modalità di quella terza guerra mondiale che non era nemmeno nei nostri sogni più oscuri, con livelli tecnologici fino a ieri impensabili.
A questo punto le ragioni del disinteresse sono molto più gravi: perché seguire le notizie di un braccio di ferro tra due contendenti che non sembrano voler sentire ragioni, quando la “buona notizia” non può più arrivare poiché né l’uno, né l’altro la vogliono dettare? Perché seguire un conflitto nella sua parte visibile, quando ce n’è un’altra, invisibile, nella quale si stanno spostando le pedine reali? Non è noia a spingere a cambiare canale, ma molto peggio: è la sensazione che lo scenario che viene mostrato non sia quello essenziale, ma solo quello che serve al precipitare delle emozioni in un vortice di dolore, al quale si somma la perdita della speranza verso quella “buono notizia” che non arriverà mai.
Non è alzando la spettacolarità delle immagini o mostrando video sempre più osceni, ma solo lasciando intravvedere una strada che riporti in vita la speranza di una soluzione che si possono trovare buone ragioni per continuare ad interessarsi ad una guerra che non avrebbe mai dovuto avere delle ragioni per essere intrapresa.
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