Per concludere la stagione di balletto 2018-2019, il Teatro dell’Opera di Roma ha ripreso un titolo apparso spesso nelle ultime stagioni, Don Chisciotte di Ludwig Minkus, con l’allestimento e con la coreografia con cui nel 2017 era stato inaugurato il nuovo corso del balletto della Capitale. Il cast è ovviamente differente.
Don Chisciotte ha una storia particolare. Appartiene al genere tardo romantico (la prima è del 1870, ma la versione corrente risale al 1871). Lo ideò Marius Petita, che allora faceva il bello e il cattivo tempo in materia di danza nei Teatri Imperiali della Russia zarista. Petita lo coreografò con Alexander Gorgsky, una coreografia che dal 1961 si è vista una decina di volte al Teatro dell’Opera di Roma. La musica venne commissionata a Minkus, il quale nato in quella che ora è la Repubblica Ceca ma allora era parte dell’Impero austro-ungarico, giunse da bambino a Vienna e diventò uno dei musicisti di corte a San Pietroburgo dal 1869 al 1891 quando rientrò a Vienna, dove, ormai anziano, ebbe scarsa fortuna professionale e morì in povertà perché il governo rivoluzionario sovietico gli tolse la pensione.
I suoi balletti, numerosi, sono sempre stati in repertorio nell’Urss, ma non arrivarono in Occidente sino a quando nel 1961, all’aeroporto parigino di Le Bouget, Rudolf Nureyev chiese asilo politico. In effetti, il gran pas de deux del terzo atto era noto perché George Balanchine, nato a San Pietroburgo ma scappato in Occidente giovane, lo aveva incluso nel repertorio del New York City Ballet.
Oggi Don Chisciotte è, con La Bayadère, uno dei due balletti di Minkus più rappresentati. È nel repertorio del Royal Ballet e del Teatro alla Scala nella versione aggiornata da Nureyev e dell’American Ballet Theatre in quella curata da Mickail Barishnikov. Recentemente, Alexey Ratmansky, uno dei coreografi più apprezzati della giovane generazione, ne ha approntato un’edizione modernissima, e molto discussa, per lo Het National Ballet di Amsterdam. Quindi anche se Minkus resta un compositore eclettico ed è considerato un mestierante, si tratta di roba fine.
Il Don Chisciotte proposto dal Teatro dell’Opera di Roma è molto differente da quelli basati sulla coreografia di Gorgsky. La coreografia è di Laurent Hilaire che a sua volta si basa su quella di Mikhail Baryshnikov per l’American Ballet Theatre. È molto più dinamica ed atletica. Incantevoli le scene ed i costumi di Vladimir Radunsky (deceduto circa un anno fa a Roma di leucemia – ed alla cui memoria lo spettacolo è dedicato) e di A.J. Wiessbard. Ci portano in mondo di fiaba con colori sgargianti e bei giochi di luci.
Il libretto del balletto ha poco a che vedere con la narrativa e lo spirito del romanzo di Cervantes. Non manca la battaglia contro i mulini a vento, ma l’intreccio (la contrastata storia d’amore dei giovani Kitri e di Basilio, intrecciata alle rocambolesche avventure di Don Chisciotte e del suo scudiero, Sancho Panza) è essenzialmente un pretesto per giustapporre musica spagnoleggiante con musica neoclassica e ricordi di Vienna. Ed è divertente non melanconico come altri lavori ispirati a Cervantes (tra tutti l’opera di Massenet). La partitura è più interessante di quelle dei balletti tardo romantici dell’epoca. David Garforth e l’orchestra del Teatro dell’Opera la valorizzano specialmente nell’intermezzo tra il secondo ed il terzo atto di chiara impronta austro-ungarica, mentre nel resto del balletto su un tappeto mittle-europeo vengono inseriti richiami alla musica spagnola.
Sino al 20 ottobre, si alternano tre cast. In quello della sera della prima, il 15 ottobre, eccellenti i due protagonisti, Evgenian Obraztova (nel ruolo di Kitri) e Davide Dato (il quale ricorda il giovane Baryshnikov). Tutti gli altri di altissimo livello, in gran misura grazie al rinnovamento apportato da Eleonora Abbagnato.
In Italia c’è domanda di balletto; solamente a Roma tre teatri presentano principalmente balletti, spesso su nastro registrato. Al tempo stesso, le fondazioni liriche stanno spesso chiudendo i loro corpi di ballo.
Perché non trasformare il ballo dell’Opera di Roma, che ha ormai superato in qualità quello della Scala, in una formazione nazionale come il Royal Ballet britannico e l’American Ballet degli Stati Uniti?