La scuola che conosciamo oggi ha un padre, e quel padre se ne è andato ieri all’età di 91 anni. Era Luigi Berlinguer, un signore colto e gentile con un cognome decisamente ingombrante. È scomparso a Siena, la città che lo aveva accolto da ragazzo, dopo una lunga malattia. Da oggi la comunità senese si stringerà intorno al suo figlio più importante.
Nato a Sassari, come i suoi cugini Enrico e Giovanni, si trasferisce per completare gli studi giuridici nella città toscana. Dalla gloriosa università di Siena uscirà solo nel 1993, dopo esserne stato il rettore per otto anni, per iniziare la sua carriera politica nazionale. Proprio per la sua lunga esperienza al rettorato, Luigi Berlinguer viene scelto da Ciampi insieme ad altri tre comunisti di area per il suo gabinetto di emergenza, durante la crisi di Tangentopoli. Destinato al ministero della Pubblica istruzione, il suo mandato durò poche ore, dal giuramento all’uscita del suo partito dal governo, annunciata da Occhetto in parlamento a causa dell’avviso di garanzia che aveva raggiunto Bettino Craxi.
Tornò per davvero al comando del ministero di viale Trastevere nel 1996, con il primo governo Prodi. Vi rimase anche nel 1998 con il governo D’Alema. Ne fu estromesso invece nel maggio del 2000, quando dopo le elezioni regionali e le dimissioni di D’Alema venne costituito per pochi mesi il governo Amato, che scelse come ministro Tullio De Mauro, intimorito dall’opposizione dei sindacati e dal clamore delle manifestazioni studentesche.
Come spesso capita, un’intera vita spesa a studiare e a riflettere poi in pochi anni deve restituire il meglio di sé. E non vi è dubbio che Luigi Berlinguer nei quattro anni in cui è stato ministro e ha potuto fare qualcosa per la scuola, lo ha fatto senza indugiare e senza pensare al suo consenso personale. Come i veri riformisti devono agire, pianificò le riforme, i tempi della loro discussione e approvazione, la concatenazione delle scelte, e – inevitabilmente – previde anche la misura delle opposizioni conservatrici al suo progetto di cambiamento.
Così, seguendo una rigida successione logica, Berlinguer riuscì ad approvare nell’ordine: il nuovo ordinamento scolastico, l’elevamento dell’obbligo formativo a 18 anni, la nuova parità scolastica di cui gli sono ancora grate le scuole cattoliche, e i principi base dell’autonomia con la nuova figura centrale del dirigente scolastico. Poi decise di affrontare l’ostacolo più grande, e cioè la possibilità di selezionare i docenti per merito e non per anzianità. La sua idea era generosa, era riuscito a indirizzare su questo pezzo della riforma dell’ordinamento molti soldi. In cambio chiedeva solo di poter selezionare, pagandoli di più, gli insegnanti più bravi e impegnati, quelli che credono nella scuola, coloro che vi si dedicano anima e corpo. Sapeva che con il “concorsone” – attraverso cui avrebbe assegnato al 20% di docenti più meritevoli 6 milioni di lire a testa – poteva essere la sua ultima battaglia, ma anche la ragione della sua sconfitta. E non a caso l’aveva lasciata alla fine del suo percorso.
L’opposizione fu dura, e non solo da parte della Gilda, un nuovo movimento autonomo nato tra gli insegnanti che prefigurava in nuce il grillismo, ma anche da parte dei sindacati storici, a cominciare dal voltafaccia della Cgil. La Cgil era una sostenitrice della riforma dell’autonomia e delle conseguenze che avrebbe determinato, a cominciare dalla contrattazione integrativa a livello di istituto. Era una concreta opportunità di rafforzamento del sindacato. E anche il “concorsone” inizialmente non vedeva l’opposizione di Cgil, Cisl e Uil. Ma come è accaduto in più occasioni, i sindacati storici non avevano il controllo della situazione, a cominciare dal polso della categoria, che si opponeva a qualsiasi riforma.
Non destarono stupore, quando Berlinguer uscì da governo per lasciare il posto a Tullio De Mauro, le grida di giubilo degli autonomi e l’imbarazzato silenzio dei DS. Ma soprattutto nessuno osò sollevare dubbi quando nel 2006, nel secondo governo Prodi, divenne ministro della pubblica istruzione Fioroni, molto più accomodante e amico dei sindacati, o che a dirigere il ministero nel 2016 con il governo Renzi fu chiamata addirittura una ex dirigente della Cgil Scuola.
Quello che Berlinguer ha fatto in quegli anni ha però segnato in maniera irreversibile la scuola italiana. Fu una grande modernizzazione – forse l’unica dal 1960 in poi – a cui nessuno ha potuto mettere freno, anche se è rimasta incompiuta e ferma a metà del guado. Come per altri grandi rappresentanti di una generazione che via via ci sta lasciando, anche per Luigi Berlinguer si sprecano in queste ore lacrime di coccodrillo. Soprattutto da parte di quel mondo che non seppe fare tesoro delle sue intuizioni e non fece nulla per mettere a sua disposizione tutta la forza necessaria per realizzarle.
Ha ricordato in queste ore uno dei suoi principali collaboratori in quegli anni, Marco Campione: “due cose ho appreso da lui: che la scuola è per gli studenti, e che governare significa trovare soluzioni”. Due cose talmente semplici che quando ha tentato di metterle in pratica ha fatto una rivoluzione.
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