Caro direttore,
la notizia della morte di mons. Luigi Negri mi è arrivata proprio mentre mi stavo recando in Chiesa per la Santa Messa con il Te Deum. È una circostanza che mi ha subito richiamato alla memoria quanto egli tenesse a questo momento particolare, nel quale la Chiesa invita a guardare quanto è accaduto nel corso dell’anno per ringraziare di ciò che è successo e a offrire le nostre vite a Colui che è il vero e unico Signore della vita. Proprio lo scorso anno nell’occasione del Te Deum del 2020, in un messaggio pubblicato sul suo sito, lo stesso mons. Negri scriveva: “Dico a voi tutti amici che mi avete riservato uno spazio così significativo e vero nel vostro cuore che anche quest’anno Dio ha continuato la nostra educazione. Tutto quello che è accaduto e che abbiamo vissuto ci consegna alla sua Presenza con una verità più profonda”.
Questa Verità più profonda si è svelata a lui in modo pieno e definitivo e – almeno così io penso – ha scelto proprio questo particolare momento secondo una prospettiva provvidenziale. Quasi un invito a rendere grazie al Signore della sua vita, della vita di un uomo di Chiesa che ha speso l’intera esistenza a educare alla fede chiunque incontrasse e gli fosse affidato a vario titolo: i ragazzi di Gioventù studentesca, i ragazzi del Clu, i gruppi di Fraternità di Comunione e liberazione, i fedeli delle due diocesi delle quali è stato vescovo e chissà quanti altri.
Certamente così è stato per me, e, accanto al dolore e alla tristezza per la perdita di colui che è stato e continuerà a essermi padre nella fede, è andato crescendo, fino ad arrivare a imporsi in modo prevalente, un profondo sentimento di gratitudine.
Grato per avere conosciuto e frequentato un uomo che ha vissuto in modo integrale la fede e, soprattutto, ha vissuto perché la Chiesa fosse autentico luogo di missione. Tante volte gli ho sentito ripetere e tante volte lo ha anche scritto nei suoi libri che “la missione è il grande movimento di autorealizzazione della Chiesa” e che “la missione è il compito che il cristiano è chiamato a vivere in tutto ciò che fa”. Da prete e da vescovo, fin tanto che ne ha avuto le forze, non si è mai tirato indietro di fronte agli inviti dei tanti che lo chiamavano a intervenire, girando l’Italia e non solo, senza mai fermarsi. Potevano essere ambiti accademici, grandi raduni come piccole comunità, così come anche gli innumerevoli incontri personali: non era importante il numero di partecipanti perché ciò che contava per lui era solo la missione.
Grato perché dalla frequentazione con lui, iniziata nelle aule dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ho potuto imparare quanto l’educazione alla fede non possa prescindere dall’educazione alla ragione. Dal suo insegnamento e, prima ancora che dai profondi contenuti di teologia, di filosofia e di storia – secondo quella poliedricità che caratterizzava in modo davvero sorprendente il suo pensiero –, dal suo stesso modo di ragionare e di porsi di fronte alle grandi questioni della cultura, così come davanti alle vicende più quotidiane, ho compreso che la fede è chiamata a confrontarsi con la ricerca della verità della quale la ragione è costituita. Come non ricordare a tale riguardo l’affermazione di san Giovanni Paolo II tante volte da lui citata: “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”. Ecco, penso si possa dire davvero che uno dei suoi più importanti contributi culturali sia stato proprio quello di avere sempre favorito lo sviluppo di una fede carica di ragioni, di una fede che non può esaurirsi a un sentimento ma che è chiamata a giudicare la realtà, offrendo in questo modo un contributo significativo, non solo per i cristiani, ma anche per tutti gli altri uomini.
Grato perché ho imparato da lui che non c’è libertà senza appartenenza, ovvero che l’idea astratta delle libertà individuali, propugnata da certo pensiero moderno, non ha fondamento e rischia di essere spazzata via o condizionata in ogni momento dalla forza del pensiero dominante. È solo nel riconoscere a chi si appartiene che si può sperimentare davvero l’essere liberi: non dallo Stato, non dalla società nelle sue pur diverse e importanti manifestazioni, ma da Dio deriva la libertà. Secondo la formula della tradizione ambrosiana alla quale era particolarmente legato: ubi fides, ibi libertas. Questa chiarezza di giudizio sui fondamenti, sempre così viva nel suo insegnamento, è ciò che mi ha sempre aiutato a definire le questioni sociali, politiche e culturali secondo una prospettiva, per quanto possibile, tentativamente integrale, cercando di evitare le riduzioni che portano ad accordare la fede con le visioni mondane e ideologiche, dimenticando quei principi non negoziabili richiamati da Benedetto XVI e sempre riproposti da mons. Negri come imprescindibili.
Grato per avere potuto approfondire, grazie al suo insegnamento ma anche – direi soprattutto – al rapporto con lui, quanto il cristianesimo sia un avvenimento di vita che coinvolge chi ne è investito in una compagnia, in un’amicizia. Anche nelle varie vicissitudini, a volte complicate e spesso cariche dei tanti impegni ai quali le sue responsabilità lo obbligavano, non si tirava mai indietro di fronte alle richieste di aiuto. Così è stato per me, ma certamente anche per i tanti amici che hanno contrassegnato la sua esistenza. Non era solo una questione umana e non dipendeva certamente da aspetti caratteriali o da altro, ma dalla consapevolezza del carattere ecclesiale della compagnia e dell’amicizia, nata e sviluppatasi in lui dalla sequela di don Luigi Giussani. Penso che niente meglio delle sue stesse parole, tratte proprio dal suo ultimo libro, Con Giussani. La storia e il presente di un incontro (ed. Ares), ma ribadite anche in tante altre circostanze, possano aiutare a capire meglio quanto ho cercato di evidenziare: “Io ho meditato molto sul fatto che la storia per noi, che abbiamo incontrato Giussani e, seguendolo, abbiamo contribuito alla vita del Movimento di Comunione e liberazione, a partire da quanto accaduto nelle aule del Berchet, è innanzitutto la storia di un’amicizia. L’amicizia del Signore verso di noi: ‘non vi chiamo più servi […] ma vi ho chiamato amici’. Se si parte da questa consapevolezza, allora si capisce che la parola amicizia coinvolge immediatamente tutta l’oggettività dell’esperienza cristiana: siamo amici suoi e, per questo, possiamo essere amici uno dell’altro”.
Infine grato perché, soprattutto negli ultimi tempi, mi ha aiutato a capire quanto questa amicizia non sia destinata a finire ma a continuare in quella comunione dei santi spesso da lui richiamata per fare capire come la compagnia, che è la Chiesa, non venga mai meno “perché poggia, da un lato, sull’eterno di Dio e, dall’altro, sulla fatica e il cammino della vita quotidiana di ciascuno”.
E per questo sono certo che continuerà ad aiutarci, sebbene secondo un modo nuovo e misterioso, nel cammino quotidiano di tutti noi. Così come credo anche che il suo insegnamento, sviluppatosi sempre in continuo dialogo con i suoi grandi maestri, tra cui spiccano sicuramente, oltre a don Luigi Giussani, san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, costituisca una fonte di ricchezza alla quale si potrà e, per certi versi, si dovrà ancora attingere con grande profitto.
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