Lunedì 31 gennaio è morto a 92 anni Luigi Pasinetti, professore emerito di analisi economica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Pasinetti è stato uno degli economisti italiani più conosciuti e apprezzati a livello internazionale. La sua figura di studioso e la sua figura umana costituiscono qualcosa di raro nel panorama culturale contemporaneo. Il suo rigore analitico è infatti sempre andato di pari passo con la sua visione del mondo; era un credente, appassionato dell’uomo.
Era nato a Zanica (Bergano) nel 1930. Dopo la laurea in economia e commercio presso l’Università Cattolica di Milano ha studiato a Cambridge, Oxford e Harvard e ha conseguito il PhD presso l’Università di Cambridge. In Italia si è formato con Francesco Vito e Siro Lombardini e, all’estero, con Richard M. Goodwin, Wassily Leontief, Nicholas Kaldor, Joan Robinson e Piero Sraffa. Ha ricoperto la cattedra prima di econometria (dal 1964) e poi di analisi economica (dal 1981 al 1999) presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. È inoltre stato presidente della Società italiana degli economisti (1986-1989) e della European Society for the History of Economic Thought (1995-97). Era socio nazionale dell’Accademia nazionale dei Lincei e membro effettivo dell’Istituto lombardo, Accademia di scienze e lettere.
Pasinetti figura tra i leader di un approccio all’economia politica minoritario, alternativo al filone dominante (cioè quello neoclassico): il filone classico-keynesiano, che riprende il punto di vista degli economisti classici, in particolare di David Ricardo, e lo innesta nel pensiero keynesiano. I suoi contributi si sono concentrati sulle forze che determinano i prezzi delle merci (teoria del valore), la ripartizione del prodotto sociale fra redditi da lavoro e redditi da capitale (teoria della distribuzione del reddito) e lo sviluppo economico. Queste tematiche, apparentemente teoriche, sono inestricabilmente legate a questioni di estrema attualità: dalle politiche riguardanti i salari, gli stipendi e l’occupazione della forza lavoro alla sostenibilità del debito pubblico; dal ruolo dei profitti alla gestione delle conseguenze occupazionali del progresso tecnico, eccetera.
L’ho conosciuto nel 1984, quando seguivo il suo corso di analisi economica al mio terzo anno di università: sono rimasto subito affascinato dal modo con cui ci faceva penetrare nelle teorie economiche e nella comprensione delle relazioni economiche del mondo in cui viviamo. In poche parole era in grado di condensare concetti complessi, smontarli, criticarli e ricostruirne di nuovi, che ci mostrava essere più adeguati per capire il mondo in cui viviamo. Tutto il suo insegnamento e la sua ricerca hanno sempre cercato di mostrare come l’uomo, con il suo lavoro, la sua intelligenza e la sua abilità, sia il centro intorno al quale tutta l’economia si sviluppa.
Oltre al rigore con cui si accostava al suo lavoro ricordo la serietà con cui si accostava alla conoscenza del mondo che lo circondava: dalla politica alla attualità, dalla scienza alla filosofia. Leggeva molto, sottolineava le parti importanti, come se stesse studiando: poteva essere un articolo sull’Economist o un saggio sulla Sacra Sindone (da cui era molto attratto). Un ambito fondamentale era infatti costituito dalla sua fede, che viveva in maniera discreta ma autentica e senza divisioni artificiose: il punto di vista dal quale affacciarsi sul mondo.
È stato uno studioso che si è sempre mosso in maniera autonoma, spesso contro corrente rispetto ai pensieri dominanti, non per partito preso ma per una sua naturale originalità. Tra gli anni 60 e gli anni 80 ha intessuto una vivace dialettica con i più famosi economisti a livello mondiale (John Hicks, Franco Modigliani, Paul A. Samuelson e Robert Solow), ottenendo da essi sempre stima e grande considerazione. Più recentemente si è trovato a mettere in discussione la fondatezza dei parametri di Maastricht, in tempi non sospetti, nel 1997, quando pochi economisti avrebbero osato dire il contrario (ora molti la pensano come lui).
Nel 2006, essendo nel gruppo di docenti che ha svolto a livello nazionale il primo esercizio di valutazione della ricerca universitaria (l’attuale VQR), si è scagliato contro l’utilizzo della “bibliometria” nella valutazione della ricerca (un sistema che valuta la qualità dei singoli contributi di ricerca a partire dal numero medio delle citazioni ottenute dalla rivista su cui tali contributi sono pubblicati). Il numero delle citazioni, si pensava, permette di valutare il reale impatto delle pubblicazioni, misurarne la qualità in maniera “oggettiva” ed eliminare così le storture delle progressioni di carriera accademica controllate dai baroni universitari. Pasinetti vide subito che in certe discipline, come per esempio le scienze sociali, questo sistema avrebbe esasperato le scelte conformistiche: avrebbe incentivato la ricerca negli argomenti più alla moda al fine di ricevere più citazioni dei propri lavori, scoraggiando così i filoni di ricerca minoritari e/o innovativi. Puntualmente, almeno per quanto riguarda l’economia politica, tutto questo si è verificato!
Da diversi anni stava lavorando a un libro nel quale ha raccolto tutti i suoi saggi riguardanti la teoria del valore, e ne discuteva con tutti coloro che si mostravano interessati. Ne è uscita una nuova opera, dal titolo A Labour Theory of Value, che speriamo venga presto pubblicata.
In tutti questi anni di frequentazione in Università Cattolica lo incontravo quasi tutti i giorni, quando lui arrivava in Dipartimento, dopo che era passato dalla cappella del nostro ateneo. Quando poteva arrivava in bicicletta, si fermava spesso a pranzo nella mensa dell’università, e in quelle occasioni abbiamo parlato di tutto: dall’economia alla politica, alla famiglia, ai suoi tre nipoti e alle mie figlie. Un uomo intero, prima ancora che un intellettuale, del quale sono orgoglioso di essere stato prima studente, poi collega e soprattutto amico.
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