Rese note le motivazioni della sentenza di primo grado con la quale un mese fa il tribunale di Milano ha condannato a 2 mesi – convertiti in 15mila euro di pena pecuniaria – Luigi Pelazza de Le Iene, con l’accusa di  violenza privata a Giulia Soncini. I fatti fanno riferimento al 19 settembre 2015, quando il giornalista, all’epoca inviato della trasmissione di Italia 1, aveva inseguito pressantemente con microfono e cameraman la giornalista Soncini mentre le rivolgeva in modo insistente domande, prima sul portone della palazzina, poi nel condominio e sulla porta dell’ascensore. All’epoca la Soncini era imputata in un processo con Selvaggia Lucarelli e Gianluca Neri – poi tutti assolti dalle accuse – in merito al caso delle “foto rubate” di Elisabetta Canalis e dell’allora fidanzato George Clooney.



Al termine del procedimento il giudice Maria Angela Vita, come riferisce Corriere della Sera, il giornalista Pelazza “frapponendo il piede tra il montante e il portone d’ingresso” del condominio della Soncini mentre “continuava a porle domande e a farla riprendere dal cameraman, abbia impedito di fatto” alla collega “di chiudere la porta d’ingresso, frustrando in tal modo la sua libera determinazione di bloccare l’accesso al giornalista e al cameraman, non gradendo di essere né intervistata né ripresa dalle telecamere”.



LUIGI PELAZZA INVIATO LE IENE, LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA DI CONDANNA

Sempre nelle motivazioni si legge ancora che Pelazza, “frapponendosi con il proprio corpo tra la soglia e la porta dell’ascensore, ha impedito insistentemente” alla donna “anche con la mano, di chiudere le porte dell’ascensore”. A quel punto la Soncini aveva preferito sedersi per terra e chiamare i carabinieri. Secondo quanto emerso dalla sentenza di condanna, il comportamento dell’inviato de Le Iene ha rappresentato un “mezzo anomalo diretto a esercitare pressione sulla volontà altrui” ed ha “ancora una volta coartato la libertà di movimento e la capacità di autodeterminazione” della Soncini “avendole impedito di raggiungere casa” e “costringendola a tollerare di essere ripresa per tutto il tempo dell’intervista contro la propria volontà”. Sebbene la difesa dell’inviato avesse tentato di fare leva sull’invocazione del diritto di cronaca, il giudice non lo ha riconosciuto evidenziando la presenza di reati nell’atto di procacciarsi la notizia: “Se così fosse sarebbe paradossale che anche reati gravi come furto o rapina o reati contro l’integrità fisica potessero essere scriminati se compiuti al fine di procacciarsi notizie utili e rilevanti”, scrive.



Inoltre il giudice ha contestato anche “natura delle domande e toni anticipatamente ed eccessivamente colpevolizzanti in spregio del principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza” che avrebbero portato ad un attacco personale ai danni della collega, “teso a screditarne la figura professionale prima ancora di un accertamento processuale”.