Un film perfetto per la fine della bella stagione (le ultime settimane di settembre, appunto), magari con negli occhi ancora i riflessi del mare, come quello della splendida Puglia rurale, in cui è ambientata la dolorosa e agrodolce vicenda narrata dal regista Gianni De Blasi. L’inizio di L’ultima settimana di settembre, tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore genovese Lorenzo Licalzi, sembra uno scherzo amaro del destino. Pietro (un convincentissimo Diego Abatantuono), vedovo stanco e disilluso dalla vita, già dalla prima scena ci mostra tutta la sua ruvidezza e il suo cinismo: è pronto infatti – nel giorno del suo ottantesimo compleanno – a lasciare questo mondo, che proprio non gli interessa più. Ma la sorte beffarda ha pensato a una strada ben diversa per lui: infatti, mentre sta inghiottendo le pillole che dovrebbero portarlo nell’oblio, in extremis l’insistente scampanellare alla porta lo costringe a fermarsi. Sono due poliziotti che gli annunciano la tragica scomparsa in un incidente automobilistico della figlia e del genero. Si vedrà perciò costretto a dare proprio lui la triste notizia al nipote sedicenne Mattia, che in passato ha frequentato pochissimo e in realtà non conosce affatto.



Diego Abatantuono, che ci ha davvero divertito in tanti film comici, in questa pellicola rivela sorprendenti doti di serietà drammatica che ci coinvolgono, grazie al suo sguardo magnetico e profondo e alle parole sferzanti o ironiche che si intrecciano nel dialogo con Mattia. Il ragazzo, interpretato con genuina spontaneità dall’esordiente Biagio Venditti, accusa il colpo tremendo che la vita gli ha riservato rifugiandosi in un silenzio eloquente, e cerca di cancellare la dura realtà chiudendosi in se stesso e rifiutando persino di mangiare. Il nonno ottantenne ritiene di non potersi occupare del nipote e perciò preferirebbe affidarlo a uno zio più giovane, che si rende disponibile ma abita a Roma. Inizia così il trasferimento dalla Puglia alla grande città con l’improbabile auto d’epoca dell’anziano e la compagnia dell’affezionato cane Sid, lungo vie secondarie che regalano splendidi paesaggi, ma rallentano inevitabilmente il percorso. Il viaggio, mesto e faticoso, ma nello stesso tempo non privo di leggerezza, unisce un nonno e un nipote che, per motivi diversi, non sembrano affatto amarsi né intendersi, e si snoda perciò tra lunghi silenzi e qualche frecciata ironica.



“On the road” i due protagonisti, ciascuno segnato dalle proprie tristezze, imparano gradualmente a conoscersi e a riconoscere l’enormità lacerante di ciò che è accaduto per ciascuno di loro: un padre, che dopo avere perso la moglie ora non ha più nemmeno la figlia (e d’altra parte aveva già deciso di abbandonare il mondo con tanto di messaggio d’addio), e un figlio che improvvisamente si ritrova completamente solo, con un nonno che non sa neppure quanti anni ha. Due mondi totalmente diversi che si trovano accanto per qualche giorno e che comprendono qualcosa in più di se stessi, grazie a incontri imprevisti e rivelatori, ma soprattutto tanti sguardi, parole non dette e qualche massima di vita che lentamente sembrano portarli a un avvicinamento. Per esempio, il nonno suggerisce a Mattia di segnare su una piccola agenda tutte le persone che odia (maschilisti, femministe, autostoppisti…) proprio come fa lui, quasi a liberarsi della sofferenza per le incomprensioni degli altri e in fondo dimenticarsi della noia dell’esistenza.



Un metodo un po’ cinico, ma anche in parte divertente, per affrontare il dolore che sembra paralizzare il ragazzo. Un tentativo di sottrarsi al facile sentimentalismo, che vede un Abatantuono allergico alla mediocrità che lo circonda e lo scandalizza, per esempio quando si accorge che uno dei suoi libri di maggior successo viene venduto soltanto a 1 euro in un autogrill. È il suo modo goffo e impacciato di aiutare in qualche modo l’introverso e timido Mattia a guardare avanti, anche grazie a qualche battuta ironica e pungente. Lentamente Pietro, che riteneva di non essere più in grado di prendersi cura nemmeno di se stesso, comincia a guardare Mattia con una nuova preoccupazione per il suo destino, lui che in tutta la vita ha saputo solo dedicarsi totalmente al suo mestiere di scrittore, indifferente alle esigenze di chi gli era accanto, persino a quelle della moglie che pur tanto gli manca. Così, tra sorrisi e malinconia, ci si avvia a un lieto fine imprevisto ma non retorico, che scalda il cuore e apre alla speranza.

L’ultimo libro di Pietro, che si rammaricava di non riuscire più a scrivere, sarà proprio il racconto di quella “ultima settimana di settembre” in cui un nonno e un nipote, apparentemente ben lontani, hanno condiviso un dolore indicibile. Mattia troverà il manoscritto in un cassetto della scrivania del nonno ormai in cielo e, diventato adulto, deciderà di pubblicarlo.

Quella de L’ultima settimana di settembre è una storia amara narrata con dolcezza, che ha il coraggio di affrontare il tema della morte e del rapporto tra generazioni diverse ma che hanno ancora molto da dirsi e da condividere, anche nel tessuto strappato dei rapporti familiari di oggi. Ma ciò che più conforta non è soltanto il bel finale, ma anche la capacità di mostrare con pudore e delicatezza come la presenza dei nostri cari, anche quelli ormai scomparsi, possa accompagnarci nella vita e nelle nostre scelte.

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