“Cominciò come un concerto… finì come una celebrazione”. Così recitava il manifesto pubblicitario del film L’ultimo valzer (The last waltz) uscito nelle sale cinematografiche mondiali il 26 aprile 1978. Due anni dopo cioè quel concerto di cui noi italiani manco avevamo sentito parlare, al massimo letto qualche riga nelle allora (poche) riviste musicali. Ma quando si spalancarono le porte dei cinema, la nostra vita cambiò. Chi scrive ci rimase per due spettacoli consecutivi, quasi quattro ore. Ai tempi infatti compravi il biglietto di ingresso e nel cinema potevi rimanerci anche a dormire.



Per noi, che eravamo sottoposti al bando degli artisti internazionali per colpa di qualche idiota auto riduttore che si era divertito a lanciare bombe molotov sui palchi di Santana e Lou Reed, fu un evento, una epifania. Fu la nostra Woodstock in tempo reale. Ma non sapevamo che stavamo anche assistendo al canto del cigno di una generazione, quella che aveva cambiato il mondo dieci anni prima. Non lo sapevano neanche loro, gli artisti sul palco, probabilmente. Fu davvero una celebrazione della magia, della potenza e della bellezza della musica rock. Ognuno quella sera diede il meglio di sé, come se fosse stata l’ultima occasione della loro vita. Quegli artisti, terminato finalmente il black out concertistico, li potemmo finalmente vedere dal vivo a partire dagli anni 80, ma il loro meglio era ormai superato. Bob Dylan, ad esempio, sarebbe arrivato in Italia nel 1984 per la prima volta, quasi dieci anni dopo; Van Morrison sarebbe diventato una pallida imitazione dell’artista che in quel decennio incendiava i palcoscenici, mentre The Band, il gruppo che aveva reso possibile questo evento, non esisteva neanche più. Quel concerto infatti era il loro “ultimo valzer”.



Certo, ci sono state nuove ondate musicali dopo, nuove generazioni, nuovi eroi, ma per chi è cresciuto negli anni 70, niente ha raggiunto questi livelli. Ci siamo tutti persi nella musica che amavamo allora, che fosse Van Morrison, The Band, Joni Mitchell, Neil Young, Dylan o chiunque altro. Il mondo è un posto più freddo adesso, un posto diviso e sì, a volte anche un posto malvagio. Abbiamo tutti bisogno di mettere su un po’ di vecchia musica una volta ogni tanto, chiudere gli occhi e ricordare come si sentiva un mondo molto più gentile quando la musica era fatta per il cuore e per l’anima. E questi artisti erano la voce dei nostri cuori.



In quella formazione, quella leggendaria che era stata insieme sin da quando avevano accompagnato prima Ronnie Hawkins e poi Bob Dylan, poi nella loro straordinaria carriera discografica con il nome semplicemente di The Band, perché loro erano “il gruppo” e basta, quello per antonomasia, e cioè Robbie Robertson, Garth Hudson, Rick Danko, Richard Manuel e Levon Helm, non si sarebbero mai più esibiti insieme. “Quella on the road è una maledetta vita impossibile, si è portata via i migliori di noi” dice in una scena del film il loro leader, Robbie Robertson. Erano insieme da almeno sedici anni. Dai localini per prostitute e giocatori d’azzardo del Canada erano passati ai fischi e alle contestazioni del mondo intero accompagnando Bob Dylan durante il tour della svolta elettrica. Poi si erano esibiti a Woodstock, nel più importante festival rock di tutti i tempi e quindi negli stadi di tutta America, consacrati anche sulla copertina di Time.

Ma quel 25 novembre 1976 doveva essere il loro ultimo concerto. L’accordo era che si sarebbe ancora ritrovati a registrare dischi in studio, ma a Levon Helm (giustamente) non stava bene essere alle dipendenze di Robertson, aspettare le sue telefonate. Si lasciarono con acredine. In realtà Robertson si era stancato dei problemi di droga e alcol degli altri membri del gruppo (eccetto Garth Hudson), produrre dischi era sempre più difficile, non vivevano più insieme, dispersi tra Woodstock e Los Angeles, non si parlavano quasi più. Forte di uno stuolo di avvocati agguerriti e già d’accordo con Martin Scorsese per occuparsi delle colonne sonore dei suoi film e anche tentare una improbabile carriera da attore, decise che The Band non doveva esibirsi mai più. Non solo: senza di lui non avrebbero neanche potuto usare lo storico nome. Anni dopo, con un minimo di riconciliazione, ottennero di poter tornare a esibirsi e incidere dischi ancora come The Band, ovviamente senza Robertson.

“Once we were brothers”, un tempo eravamo fratelli, si intitola il documentario recentemente uscito che racconta la loro storia. Ed era stato così. Ma nel mondo del rock’n’roll si paga sempre un prezzo, molto alto: anche i migliori amici finiscono per diventare nemici. La morte poi è sempre lì per chi vive nella corsia di sorpasso. Nel 1986 Richard Manuel si impiccò dopo un concerto in uno squallido locale, il Cheek to Cheek, in Florida, quando The Band, senza Robbie Robertson, si era riunita esibendosi nel circuito dei locali di serie B, lui che era abituato a suonare negli stadi. Si era da poco disintossicato dall’alcol di cui aveva sempre fatto abbondante uso. Era apparso di buon umore durante il concerto secondo i suoi compagni, ma tornato in hotel dopo l’esibizione, bevve una bottiglia di Grand Marnier, finendo poi per impiccarsi. Il corpo venne rinvenuto dalla moglie Arlie la mattina seguente. I risultati dell’autopsia rivelarono che Manuel era ubriaco al momento del decesso, e che aveva ingerito cocaina il giorno della morte. Aveva 43 anni. Nel 1999, pochi giorni prima del suo 56esimo compleanno, muore nel sonno per infarto Rick Danko. Anche lui aveva abusato per tutta la vita di cocaina e eroina. Levon Helm, dopo aver combattuto per anni contro un tumore, si sarebbe arreso nel 2012.

L’ultimo valzer senza ombra di dubbio, con parere unanime di tutto il mondo dello spettacolo, nonostante il clima di guerra dietro le quinte, è ancora oggi considerato il più grande e miglior film rock della storia. Come regista venne scelto Martin Scorsese, allora al picco della notorietà grazie al grande successo dell’appena uscito Taxi Driver e perché aveva preso parte come aiuto regista al documentario Woodstock. Grande amante della musica rock e amico personale dei più grandi protagonisti, da allora Scorsese ha filmato altri concerti rendendoli tutti immortali. Ma per L’ultimo valzer diede il meglio. A differenza dei documentari rock precedenti, Scorsese usò una pellicola a 35 millimetri, mentre si era sempre usata quella a 16. Il risultato dà alle immagini un aspetto incontaminato dal tempo. L’illuminazione è diversa da qualsiasi altro film di concerto rock, il lavoro di ripresa è di prim’ordine, furono impiegati i migliori tecnici e cameramen di Hollywood. Nonostante le molte difficoltà, come la mancanza di rotoli di pellicola a sufficienza perché nessuno aveva calcolato quanto sarebbe durato il concerto (ad esempio la performance di Muddy Waters è presa da un’unica telecamera perché tutte le altre erano rimaste senza pellicola), il risultato è straordinario.

Scorsese inoltre con un colpo di genio non riprende praticamente mai gli spettatori, ogni telecamera è tutta sugli artisti, dando loro risalto e immortalandoli in una sorta di atmosfera sospesa nel tempo (durante il montaggio del film, fatto dai soli Scorsese e Robertson, il chitarrista ottiene non a caso la maggior parte dei primi piani a discapito degli altri di The Band). Aggiungete a tutto ciò l’enormità del repertorio che The Band dovette affrontare. Immaginate di imparare, arrangiare ed eseguire così tante canzoni in così tanti stili di così tanti artisti in una notte con una sola ripresa di ciascuna di esse consentita. Scorsese per tutto questo lavorò completamente gratis.

THIS FILM SHOULD BE PLAYED LOUD!” si legge all’inizio dei titoli di presentazione. Le immagini si aprono sulla sala del Winterland di San Francisco, locale dove si erano esibita per la prima volta come The Band nel 1968. Essendo la sera di Thanksgiving, il giorno del ringraziamento ci sono mille spettatori seduti ai tavoli che mangiano tacchino. Poco dopo quella stessa elegante sala decorata con le guarnizioni della Traviata (“Sembra una scena di Luchino Visconti in acido” commentò Scorsese) si trasforma in una bolgia rock.

Uno a uno salgono sul palco musicisti che hanno collaborato o sono stati amici di The Band. Su un tavolo nei camerini, racconterà Levon Helm nella sua autobiografia, una montagna di cocaina. Alla fine della serata, non ne resterà un grammo. Neil Young sale sul palco con il naso impolverato di polvere bianca, tanto che Scorsese dovrà editare le immagini per eliminare la cocaina.

Bob Dylan, la cui presenza era stata decisiva affinché la Warner sganciasse un milione e mezzo di dollari di finanziamento per il film, 15 minuti prima di salire sul palco decide che non vuole essere filmato. Non voleva che si facesse concorrenza al suo film Renaldo e Clara a cui stava lavorando in contemporanea. Dovette intervenire con le sue solite maniere forti Bill Graham per fargli cambiare idea. Avrebbe però permesso di filmare solo in parte la sua esibizione, le due ultime canzoni. I suoi avvocati erano sul palco a controllare che le telecamere fossero spente, fortunatamente fu decisivo ancora una volta l’interventio di Graham che ordinò urlando di accenderle per alcuni minuti in più.

Che fosse la presenza di così tanti grandi artisti a stimolare ciascuno  o la cocaina, tutti si esibirono incendiano la scena. Immortale resta la performance dell’ombroso Van Morrison, che finisce scalciando in aria tutta la sua energia, dello stesso Dylan, mai così “hard rock” come in quella sera, di Clapton, di cui si disse ai tempi che ci voleva The Band per tirarlo fuori dal suo torpore alcolico di quegli anni, con un assolo sfolgorante durante Further On Up the Road così carico di potenza che dopo pochi minuti si stacca la cintura della sua chitarra, costringendo Robertson a intervenire per riempire il buco e dando vita così a uno dei più eccitanti duelli chitarristi di sempre.

Ronnie Hawkins riprese la loro hit Who do you love, una bolgia sabbatica in cui il cantante e Robertson fanno a gara a chi è più devastante. Muddy Waters fu regale, come una sorta di dio che domina la scena, mentre i ragazzi di The Band lo divorano con lo sguardo e con sorrisi incantati. Neil Young duetta con Joni Mitchell, nascosta come un fantasma dietro alle tende nelle quinte, trasformando per un momento il palco in una celebrazione delle comuni radici canadesi di tutti i presenti.

Sembra non esserci fine: The Band aveva aperto la serata con due ore dei loro classici, tra cui la più straordinaria e intensa versione di The Night They Drove all Dixie Down, con tutta la potenza declamatoria di quel gruppo che solo aveva saputo portare nel mondo del rock l’epopea e il dramma della storia americana. Alle due di notte, dopo quasi cinque ore di musica, tutti i partecipanti si ritrovano intorno a Bob Dylan per intonare in coro la preghiera laica I shall be released e poi non paghi si trasferiranno in un hotel vicino a jammare con altri ospiti come Stephen Stills e Ron Wood fino alle prime luci del giorno.

Un alba fredda che avrebbe portato i cinque “una volta fratelli” per strade ognuna diversa. Ma quella notte rimarrà come la notte definitiva, la più grande celebrazione dello spirito del rock’n’roll, dove morte, dramma, sogno, epica e trascendenza si erano dati la mano.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI