Un personaggio e un topos vecchi come il cinema al servizio di nuove esigenze culturali e tematiche: il romanzo di H. G. Wells di fine ‘800 diventa nella nuova versione di Leigh Whannell, prodotta dalla Blumhouse specializzata in stimolanti B-movies contemporanei, un thriller che racconta la condizione femminile nella società tecnologica.



L’uomo invisibile comincia con una fuga: quella di Cecilia dal fidanzato violento e oppressivo. Dopo che l’uomo viene trovato morto suicida, la ragazza pensa di poter tornare a vivere serenamente, ma ha sempre l’impressione di essere spiata, che qualcuno agisca di nascosto alle sue spalle. E se il suo ex non fosse morto, ma, da genio dell’ottica, avesse trovato un modo per rendersi invisibile?



Dopo la riuscita del precedente Upgrade, Whannell scrive oltre a dirigere un thriller lievemente fantascientifico in cui – un po’ come L’uomo senza ombra di Paul Verhoeven – lavora sull’invisibilità per raccontare la cultura del possesso nella società maschilista vista però stavolta dalla parte della vittima.

Il racconto dello stalking diventa un modo intelligente per utilizzare l’armamentario del cinema, del visibile e della sua negazione, così da farne una riflessione tanto teorica quanto socio-culturale sul rapporto tra maschile e femminile, sulle dominazioni fisiche e psicologiche (interessante il sotto-testo economico) e su come questo stato di cose non sia appunto visibile.



Whannell realizza così un piccolo saggio di regia al servizio della suspense e del presupposto che la genera, fin dalla prima sequenza in cui l’invisibilità ancora non è in atto: utilizzo di punti di vista narrativamente ingiustificati per comunicare rottura della normalità, movimenti di macchina insoliti, zone vuote dell’immagine che diventano centrali e sound design minuzioso. Ogni inquadratura può rivelare qualcosa, può essere la soggettiva del maniaco: sta qui la chiave che rende il film vincente.

L’uomo invisibile conferma il talento del regista nel reinventare con stile e vivacità le regole della serie B (basso budget, alta funzionalità, arrivare dritti all’obiettivo attraverso i meccanismi propri del cinema), ma mostra anche una certa difficoltà a impostare un gioco un po’ più “alto”: quando il film prende pieghe hitchcockiane e sceglie strade psicologiche sembra fermarsi, flettersi, girare a vuoto, con l’interpretazione di Elizabeth Moss sembra andare in controtendenza rispetto al racconto. Molto meglio i guizzi di azione pura, gli sguardi allo slasher, il finale ideologicamente ambiguo ma coerente con lo spirito del film. È lì che Whannell e il suo film danno il meglio di loro.