Tanti in questi giorni celebrano, con più o meno retorica, lo storico evento di cinquant’anni fa dello sbarco dell’uomo sulla luna, quando due uomini hanno per la prima volta toccato il suolo lunare lasciandovi quelle impronte fotogeniche che sono molto più che un simbolo perché parlano di noi, raccontano dell’uomo, del suo inestinguibile desiderio di conoscere, di esplorare, di investigare, di incontrare.



Si ricordano le prime passeggiare di Niels Armstrong e Buzz Aldrin su quella che quest’ultimo ha chiamato “magnifica desolazione”, dalla quale hanno rischiato di non ripartire data la non prevista inclinazione con la quale il modulo lunare è atterrato (pardon, allunato).

Sono tanti i personaggi che, insieme ai tre astronauti dell’Apollo 11, si possono associare al ricordo di quell’impresa e ne abbiamo selezionati due, molto diversi tra loro ma altrettanto colpiti da quegli avvenimenti; due testimoni le cui considerazioni conservano un tenore di grande attualità e possono aiutare noi uomini di un altro secolo, proiettati verso altri traguardi spaziali (Marte, asteroidi, comete…) a convivere con gli entusiasmi e con i timori che imprese del genere comportano. Parliamo di Oriana Fallaci, inviata speciale del settimanale L’Europeo a Houston e a Cape Kennedy, e di Paolo VI, assiduo frequentatore in quei giorni della Specola Vaticana, l’osservatorio astronomico della Santa Sede a Castel Gandolfo.



Ma prima ancora dobbiamo citare un altro testimone che, in anticipo di un secolo, ha narrato, meglio di Tito Stagno e di Ruggero Orlando, la prima missione sul nostro satellite: è Jules Verne, autore dei romanzi Dalla Terra alla Luna (1865) e Intorno alla Luna (1870). Verne è il padre della fantascienza ma qui si è superato, descrivendo alcuni aspetti e alcune situazioni straordinariamente simili a quelle dell’Apollo 11: come la scelta della Florida come base di lancio; o la forma e le dimensioni della capsula-proiettile progettata dai soci del Gun Club di Baltimora, non molto diverse da quelle del modulo di servizio spinto verso la Luna dal potente razzo Saturn V; o ancora i retro-razzi propulsori necessari, sia nella fiction che nella realtà del luglio 1969, a portare la navicella fuori dall’orbita lunare per il ritorno a casa degli astronauti; e questi, in entrambe i casi, sono tre. Certo, per farli entrare nella capsula alla partenza Verne non è riuscito a immaginare l’ascensore e li ha fatti salire con una scala a pioli; come pure non ha pensato a una tuta a più strati e allo scafandro. Però ha descritto con vivace realismo il momento in cui si avverte l’assenza della gravità, il passaggio della “linea neutra”, il “punto d’eguale attrazione”; ed è arrivato a immaginare la possibilità di una passeggiata nello spazio, quella che oggi siamo abituati ad ammirare come “EVA, Extra-Vehicular Activity”; infine è spettacolare la scena del recupero in mare della capsula, riconosciuta da un piroscafo in mezzo al Pacifico, esattamente come accadrà all’Apollo 11.



Ma veniamo ai due testimoni prescelti. La Fallaci è stata ben più che una cronista di quelle epiche giornate; col suo tipico approccio, di chi vuole partecipare a ciò che descrive, ha pensato di trasferirsi negli States per lunghi periodi negli anni 60, vivendo a Houston e diventando un’ospite fissa del centro di addestramento della Nasa. La giornalista-scrittrice ha voluto capire dall’interno come si stava preparando la storica missione promossa dagli appassionati discorsi del presidente John Kennedy: quello del maggio 1961 al Congresso e quello del settembre 1962 in Texas, con quell’epica conclusione “Abbiamo scelto di andare sulla Luna in questo decennio, e di fare altre cose, non perché siano facili ma perché sono difficili”. Oriana ha voluto rendersi conto direttamente di queste difficoltà, ha studiato i dettagli del programma di volo, ha visto i diversi progetti alternativi ideati per effettuare l’allunaggio, ha provato il simulatore di volo e l’assenza di gravità. Ma soprattutto ha incontrato i protagonisti: gli astronauti, i tecnici, gli scienziati, a cominciare da Werner von Braun; ha voluto conoscere gli astronauti nella loro normalità quotidiana, fino a diventare amica di alcune delle loro mogli, cercando di capire cosa vivevano davvero quando affermavano di non avere paura per il mestiere del marito. E quel 20 luglio del ’69 era lì a Cape Kennedy, ha visto da una ventina di metri Armstrong, Aldrin e Collins “proprio mentre – racconterà su L’Europeo – si avviavano verso quel camioncino che li porta al razzo, una specie di camioncino del lattaio. Erano molto sorridenti, molto contenti, io ero un po’ sorpresa, perché gli altri che ho visto, anche quelli dell’Apollo 10, erano sempre un po’ aggrondati, pensierosi. Invece questi ridevano proprio con allegria. Dietro il vetro del casco spaziale ho visto bene i denti bianchi che sorridevano. Erano molto belli”. 

Nei reportage della Fallaci – come nel libro che li raccoglie, Quel giorno sulla Luna – c’è tutta l’emozione che accompagna un’impresa unica; c’è tutta l’ammirazione per la bravura, la genialità, l’audacia di chi vi ha partecipato nei diversi ruoli; c’è la riflessione di chi ha vissuto quei momenti senza lasciarsi dominare esclusivamente dall’emozione, senza nascondere dietro al trionfo tutti gli aspetti problematici e anche negativi, senza rinunciare a interrogarsi sul perché. Oriana è preoccupata per la possibile assuefazione anche a un fatto così clamoroso, teme che il tempo possa consumare anche un evento di queste proporzioni: “Ci si abitua a tutto, anche al miracolo di essere usciti dalla nostra prigione per approdare a quell’isola brutta: presto ce ne scorderemo, come abbiamo scordato il miracolo del primo pesce che uscì dalle acque per approdare sulla terra e diventare un uomo”. 

In quella notte straordinaria tutti i 500 milioni di telespettatori che hanno seguito le dirette delle tv in bianco e nero, si sono rispecchiati negli sguardi dei tre astronauti, si sono sentiti un po’ artefici di quel grandioso risultato. La Fallaci però avverte una inadeguatezza: “Forse il successo ci ha fatto perdere il senso delle proporzioni, forse ciò che è avvenuto è troppo grande per essere giudicato da noi”. E con un profondo senso di realismo commenta: “A noi contemporanei, a noi spettatori, resta solo da narrare ciò che abbiamo visto e udito ora con orgoglio ora con vergogna. Giacché siamo composti dell’uno e dell’altra, e anche nel viaggio alla Luna gli uomini hanno dimostrato la loro bellezza e la loro bruttezza, che è come dire la loro umanità”. 

Sull’umanità che si rivela in simili occasioni rifletteva anche Paolo VI, dopo aver seguito con attenzione e apprensione fino a tarda notte i servizi televisivi della Rai. Ne aveva già accennato all’Angelus di domenica 20 quando, dopo aver augurato un felice esito per la missione lunare, aveva invitato tutti a “meditare sull’uomo, sul suo ingegno prodigioso, sul suo coraggio temerario, sul suo progresso fantastico. Dominato dal cosmo come un punto impercettibile, l’uomo col pensiero lo domina. E chi è l’uomo? Chi siamo noi, capaci di tanto?”.

La mattina di lunedì 21 aveva poi inviato ai tre astronauti un messaggio che si apriva con un solenne Gloria a Dio! ripetuto “come inno di festa da parte di tutto il nostro globo terrestre, non più invalicabile confine dell’umana esistenza, ma soglia aperta all’ampiezza di spazi sconfinati e di nuovi destini”. Il messaggio proseguiva con un “onore a voi, uomini artefici della grande impresa spaziale! Onore agli uomini responsabili, agli studiosi, agli ideatori, agli organizzatori, agli operatori! Onore a tutti coloro che hanno reso possibile l’audacissimo volo … che allarga alle profondità celesti il dominio sapiente e audace dell’uomo”.

Infine il 23 luglio, un giorno prima del rientro dell’Apollo sulla Terra, era tornato sull’esigenza di meditare su quanto era accaduto: “Ciascuno vi pensi a suo modo, purché vi pensi!”. Si era rivolto soprattutto al mondo giovanile, attraversato dai fermenti della contestazione, invitandoli a “sentire l’impulso ideale e positivo che loro è offerto dalla magnifica avventura spaziale”, nella convinzione che “il campo scientifico merita ogni interesse” contro ogni tentazione di disfattismo e di “spregiudicato disprezzo verso la nostra età e verso il suo sforzo creativo”.  Aveva proseguito indicando una tendenza insita nella natura umana, tanto più avvertita quanto più l’uomo progredisce; l’ha chiamata tendenza cosmica: “chi studia, chi cerca, chi pensa non può sottrarsi ad una obiettiva onnipresenza di Dio… Impossibile sottrarsi da questa presenza, di cui la materia, la natura è, per chi lo sa comprendere, un libro di lettura spirituale… Il Dio ignoto è sempre lì; ogni studio delle cose è come un contatto con un velo dietro il quale si avverte un’infinita palpitante Presenza”. Infine aveva esortato i fedeli a non temere “che la nostra fede non sappia comprendere le esplorazioni e le conquiste, che l’uomo va facendo del creato, e che noi, seguaci di Cristo, siamo esclusi dalla contemplazione della terra e del cielo, e dalla gioia della loro progressiva e meravigliosa scoperta”. 

All’epoca queste parole non hanno avuto la risonanza mediatica che avrebbero oggi; forse avrebbero favorito una migliore comprensione della storica frase di Armstrong (“That’s one small step for a man, but one giant leap for mankind”), indicando la natura del “grande balzo” e dando un degno significato alla parola “umanità”.