Nato il 5 gennaio 1941 in un distretto di Tokyo (come il secondo di quattro fratelli); un padre che lavora in qualità di direttore nell’azienda di proprietà dello zio (attiva durante la Seconda guerra mondiale nella produzione di timoni per gli aerei da combattimento Mitsubishi A6M, i temibili caccia “Zero”); laureato in Scienze politiche ed Economia (con una tesi sulle teorie dell’industria nipponica); attivo poi dal 1963 nel campo dell’anime (contrazione giapponese della parola inglese animation che sta quindi a indicare i disegni animati) come intercalatore, character designer, scenografo, organizzatore, sceneggiatore, regista e produttore (a seconda del periodo): in breve, una figura che ha rappresentato, per ben più di una generazione di giovani sparsi in tutto il mondo che nulla sapeva del Giappone, una delle vere e proprie porte di accesso alla nazione del Sol Levante (e non semplicemente in fatto di cinema).
Era il 9 settembre 2005 quando la Mostra di Venezia, giunta alla 62ª edizione, premiava Hayao Miyazaki con il Leone d’Oro alla carriera – che per la prima volta nella storia del Festival veniva assegnato a un regista di “cartoni animati” – e così giustificava il riconoscimento l’allora direttore Marco Müller: «Hayao Miyazaki è il gigante che ha fatto saltare le pareti dentro le quali si era voluto incasellare il cinema giapponese d’animazione riducendo a parametri per noi consueti un’energia creativa, una visione assolutamente fuori dell’ordinario. La filosofia di Miyazaki unisce romanticismo e umanesimo a un piglio epico, una cifra di fantastico visionario che lascia sbalorditi. Il senso di meraviglia che i suoi film trasmettono risveglia il fanciullo addormentato che è in noi. Senza tuttavia dimenticare le sorprese industriali di Miyazaki, che ha saputo con i “complici” giusti far saltare le categorie convenzionali dell’animazione, grazie al lavoro sistematico di una factory che ha fatto crescere anche non pochi altri talenti. In Hayao Miyazaki si incarna la pop art cinematografica del nuovo millennio […]».
Una carriera piena di titoli memorabili e che – perlomeno in fatto di lungometraggi – ha avuto inizio giusto quarant’anni fa con la regia di Lupin III – Il castello di Cagliostro, opera apparsa nelle sale giapponesi il 15 dicembre 1979, prima pellicola di animazione a essere presentata e premiata al Festival di Cannes nel 1980 (con tanto di applausi a scena aperta di un estasiato Steven Spielberg – secondo cui si trattava del «più grande film d’avventura mai realizzato» – per via di una scena d’inseguimento di cui si dirà tra poco) e che è stata definita la rocca sulla quale poggiano la fama e il successo del suo geniale autore.
Il ladro e mago dei travestimenti Lupin III con il tiratore scelto e braccio destro Daisuke Jigen rintracciano l’origine delle banconote false che per quattro secoli hanno influenzato l’economia mondiale, «il denaro del capro, il buco nero, […] il vero burattinaio della Storia»: lo staterello di Cagliostro, retto dall’omonimo conte che tra le mura del suo castello tiene prigioniera in attesa delle nozze la giovane e bella duchessa Clarisse, ovvero l’inconsapevole chiave di accesso a un tesoro inimmaginabile… L’esordiente Miyazaki allestisce un incipit fulmineo ed esilarante – la scoperta del colpo e la fuga da un ipotetico Casinò di Montecarlo – con Lupin e Jigen che si calano dall’alto per poi fuggire a bordo di una Fiat Cinquecento gialla letteralmente stipata di banconote (false). Terminati i titoli di testa e dopo una breve pausa bucolica per via del cambio di una gomma, con i due già immersi tra i verdi prati in fiore non appena varcata la frontiera di Cagliostro, ecco arrivare una sequenza memorabile, tra i migliori inseguimenti automobilistici che la storia del cinema abbia offerto. Con la loro Cinquecento, fino a quel preciso istante in tutto e per tutto nella norma (colore a parte…), Lupin e Jigen sfrecciano sulla scia di altre due auto, di cui una è la Citroën 2CV guidata da Clarisse vestita in abito da sposa e in fuga dagli sgherri del conte. La sequenza sfoggia un montaggio serrato e una serie di trovate che sfidano (come molto altro, del resto) le leggi della fisica. Una firma d’autore: la Cinquecento è infatti quella dell’animatore Yasuo Otsuka mentre la 2CV è quella dello stesso Miyazaki.
Come detto, diverse fonti riportano l’entusiasmo di un giovane Spielberg, così folgorato dalla visione da spingere alcuni a ipotizzare dirette influenze sulle sequenze d’azione dei vari Indiana Jones (1981-2008) e su Le avventure di Tintin – Il segreto dell’Unicorno (2011). L’esordio sul grande schermo di Hayao Miyazaki non solo segnala, ma quasi “racconta” la nascita di una delle più brillanti stelle del firmamento del cinema (non solo d’animazione).