C’è già chi lo chiama il patto di Ferragosto e chi pensa che sarà un sogno di mezza estate. Già solo l’entente cordiale tra Pd e M5S fa traballare il Governo, se poi verrà siglato un accordo politico in vista delle elezioni regionali del 20 e 21 settembre, allora Giuseppe Conte in persona potrebbe temere per il proprio posto. E l’insidia viene dal di dentro, o meglio da quella spina nel fianco seduta alla Farnesina, insomma da Luigi Di Maio. I colloqui tra il capo politico del Movimento 5 Stelle e il Segretario del Pd Nicola Zingaretti si sono infittiti e sono arrivati al dunque. Anche il fondatore del Movimento Giuseppe Grillo, attivo come mai durante l’estate, ha tessuto la tela. Il risultato della consultazione nella piattaforma Rousseau che dice sì (come scontato) all’alleanza, dimostra che il processo è nella fase finale. Vedremo nei prossimi giorni come prenderà corpo. C’è già l’ostacolo Virginia Raggi perché Zingaretti ha detto che non sosterrà la sindaca di Roma scesa in campo per un secondo mandato, ma come recita il titolo di un famoso film con Sean Connery-James Bond, “mai dire mai”, soprattutto in politica. Lo si vede con il referendum sul taglio dei parlamentari dove il Pd sta passando dal No al Sì.
In attesa dell’inevitabile ricaduta sull’esecutivo (Di Maio non nasconde la voglia di sedere lui sulla poltrona più alta di palazzo Chigi) le prime conseguenze sono l’opposto di quanto ci si potrebbe aspettare: non un’accelerazione dell’attività del Governo, ma una lunga frenata. Il piano per la ripresa, ad esempio, non c’è ancora e viene rinviato a settembre non per imperizia degli uomini del ministero dell’Economia, ma per la difficoltà estrema di trovare il consenso sulle priorità e su alcuni snodi fondamentali che coinvolgono gli equilibri del potere reale e il consenso delle rispettiva basi politiche ed elettorali.
Tutti in apparenza sembrano d’accordo che bisogna dare priorità agli investimenti pubblici, ma detto così è tutto e niente. Quali investimenti e dove? Sulle infrastrutture le divergenze tra Pd e M5S restano ancora ampie, rispunta il fronte del No dalle trivelle al 5G, mentre è in alto mare la sorte di Autostrade per l’Italia. Conte ha detto che ci sarà una presenza dello Stato (attraverso la onnipresente Cassa depositi e prestiti), ma chi gestirà la nuova Aspi, quale quota avrà la Cdp (che chiede una manleva per mettersi al sicuro da guai giudiziari, quella che non venne concessa ad Autostrade) e chi saranno gli altri azionisti? A quanto scenderà la quota dei Benetton e come sarà la “buonuscita?”. Il Governo non ha trovato nessuna soluzione.
Lo stesso può dirsi per un’altra partita strategica come la rete delle telecomunicazioni. Deve essere unica? Però l’Enel non vuol cedere il suo 50% di Open Fiber. Quanto a Tim intende rimanere al 51% nell’eventuale nuova società che dovrebbe comprendere la rete che a Tim appartiene. Ma a questo punto sono gli altri operatori a puntare i piedi. Grillo ha suggerito la sua soluzione che però si scontra con l’impossibilità di far uscire Vivendi a meno di versare un bel po’ di soldi dei contribuenti nelle tasche di Vincent Bolloré che certo non ne ha bisogno (altro che bonus dei furbetti leghisti e pentastellati!). Spunta poi la protezione di Mediobanca e Generali da “scalate ostili” (compresa quella di Leonardo Del Vecchio) e la proposta di “ri-nazionalizzare” Borsa Italiana; proposte del M5S che trovano il consenso della Lega non del Pd.
Ma la questione più spinosa riguarda la riforma del mercato del lavoro, uno dei caposaldi strategici per utilizzare il fondo europeo per la ripresa. I grillini sono sempre stati contrari al Jobs Act, hanno tentato di abolirlo mentre erano al Governo con la Lega e di ripristinare l’articolo 18, non ci sono riusciti e lo hanno aggirato anche con il reddito di cittadinanza che ha reso ancor più confuso l’intero sistema di welfare. Poi è arrivata la pandemia che ha allungato e moltiplicato la cassa integrazione. Ora il segretario della Cgil Maurizio Landini rimette in discussione la riforma varata da Matteo Renzi e vuole tornare anche all’articolo 18, una proposta che manda in sollucchero il M5S, ma che è miele anche per l’ala sinistra del Pd.
Allo stato attuale non sappiamo come la pensa il Governo. Per la ministra del çavoro Nunzia Catalfo il reddito di cittadinanza non si tocca, il Jobs Act va abolito, l’articolo 18 ripristinato. Conte è d’accordo? Che ne dicono Zingaretti e Gualtieri? A questo scoglio tagliente si aggiunge il macigno di quota 100. È una bandiera salviniana, tuttavia il provvedimento è stato approvato dal M5S. Si capisce che sarà un groviglio intricato della trattativa con l’Unione europea che vorrebbe venisse cancellato. Da quel che è possibile intuire, sarà oggetto di un negoziato, un probabile scambio: via quota 100 e manteniamo il reddito di cittadinanza. Fin qui sarebbe pari e patta, ma il Pd è disposto anche a svendere l’articolo 18?
Saranno guai seri anche mettere insieme una linea comune sulla riforma fiscale, con le partite Iva che non vogliono rinunciare alla giungla di deduzioni e detrazioni che abbattono in modo radicale l’imposta effettivamente versata da chi non ha la busta paga che viene tagliata ogni mese dal fisco. Tra le riforme che andrebbero varate e stanno a cuore anche all’Ue, c’è la giustizia civile. Non c’è problema finché si parla di snellire e accelerare, i guai cominciano quando si comincia a entrare nel merito. Il diavolo s’annida nei dettagli, come sappiamo, e i “diavoletti” non mancano davvero nella coalizione che governa il Paese con passo sempre più lento e mano sempre più incerta.