Il presidente francese Macron ha infine attualizzato il verbo gaberiano: la libertà è partecipazione. Dopo aver chiesto ai francesi di deliberare praticamente su tutto, ha deciso di produrre uno zero assoluto.

Prima conferenza stampa in cinque anni, finalmente i giornalisti francesi ed europei hanno visto in faccia Macron, e lo show che ne è seguito è la cartina di tornasole della sconfitta prossima ventura della “rivoluzione dei manager”. Non a caso, Macron intende azzerare perfino la leggendaria scuola nazionale di amministrazione, l’Ena, per farne una migliore, naturalmente.



In ordine, le tappe della strategia macroniana:

1. una serie di vaghi ritocchi alle istituzioni, che non spostano niente;

2. riduzione del carico fiscale ai lavoratori dipendenti ed a ciò che rimane del ceto medio;

3. la questione ecologica, oggi ridotta al buttare la palla in tribuna, quando l’attacco sta schiacciando la tua squadra;



4. non meglio definita rifondazione dei meccanismi di garanzia dei pagamenti pensionistici, con la retorica sul mezzo milione di posti di lavoro in più e la non ancora dichiarata recessione francese.

Letteralmente, tutto qua.

Alcune considerazioni che vanno anche al di là della Francia.

Molti commenti sul sito di Liberation mettono il dito nella piaga: l’egolatria di questo presidente è pari all’inettitudine ormai manifesta e perfino imbarazzante.

La sua testa è già sotto la ghigliottina prossima ventura, le elezioni europee. Un secondo mandato è già un miraggio o, in ogni caso, non ha niente della scontatezza di cinque anni fa. Tutto è cambiato, in un lustro.



Mentre l’uscita dallo stato di minorità europea sta mostrando la sua fragilità strutturale, l’America di Trump sta muovendosi con una borsa ai massimi storici, all’interno di un quadro di isolamento, che però non preoccupa più gli americani. Per ora sta spezzando le reni del partito democratico che non ha candidati. Biden è un agnello sacrificale, per ora solo candidato alle primarie. La fine della sinistra, da quella managerial-capitalistica a quella radicale, è il fenomeno più significativo di questi primi decenni del XXI secolo.

Dall’altra parte del globo, Putin sta rispolverando il manuale leninista e sta mettendo in piedi una rete di alleanze niente male, che vede nella Corea del Nord il lasciapassare per intavolare rapporti strategici con la Cina. La Cina è il volano per uscire fuori dalle secche occidentali, Putin l’ha capito e il problema annoso delle sanzioni è diventato oggi il rovello e il fardello della casta eurocratica allo sbando. Il comunismo ha lasciato dietro di sé l’unica classe dirigente in grado di interpretare e guidare i processi storici e geopolitici.

Nella cornice del suicidio dell’Occidente, Europa in primis, l’area del Pacifico sta diventando la nuova avventura mondiale per chi voglia salvare pane e companatico: ancora una volta, Putin docet.

Mentre tutto ciò si sta consumando, con fredda oggettività, Macron fa sfoggio di imperiale narcisismo e la demagogia sta prendendo il posto delle fanfare mercatiste, che mandavano in visibilio gli ex compagni di Putin, ieri, anni 90 del secolo scorso, e che hanno partorito la più debole risposta politico-culturale alla crisi del sistema socioeconomico mondiale. La rivoluzione dei manager è, dunque, fallita; i demagoghi di ogni razza stanno prendendo il palazzo d’inverno senza sapere cosa li aspetterà, una volta varcato il portone del medesimo; il neocomunismo mondiale, ben al di là delle internazionali di un tempo, sta mostrando tutto il suo smalto d’antan. Benvenuti nel XXI secolo.