L’Italia è il primo Paese al mondo per influenza culturale. Ma stenta a trattenere i suoi talenti ed è 33esimo sui 38 dell’Ocse per la capacità di attrarne. In più, è vittima di una copiosa fuga di cervelli con una frotta giovani laureati che decide di tentare la fortuna altrove anche perché il differenziale delle retribuzioni è così alto (56% a un anno dal diploma) da scoraggiare qualsiasi tentazione di restare.
Sono alcuni dati contenuti in un’interessante ricerca dell’Istituto Tagliacarne e di Unioncamere – Competere nell’incertezza – che fotografa pregi e difetti di una nazione che cerca ostinatamente di conservare il suo posto tra i Grandi del mondo nonostante molti indicatori mostrino che nel medio lungo termine sia destinata ad arretrare. E questo a prescindere dal Governo in carica.
Oggi, per dire, siamo la decima potenza industriale nel globo. Ma siamo destinati a scomparire in una classifica che prevede il sopravanzare di Cina e India con l’ingresso di Nigeria, Indonesia, Pakistan, Egitto (della vecchia guardia si salveranno Usa, Germania, Inghilterra e Brasile). Insomma, interverranno nuovi equilibri e sarà sempre più difficile competere sotto il profilo della potenza economica.
Anche perché, dobbiamo esserne consapevoli, la scarsa propensione a fare figli si sta facendo già sentire. Saremo sempre di meno su questo lembo di terra nonostante il posizionamento strategico – crocevia tra nord, sud, est e ovest del pianeta – che la sorte ci ha donato. E diventeremo presto un peso leggero considerando che non abbiamo materie prime e spendiamo poco in ricerca e innovazione.
Non saremo i soli a fare passi indietro perché sarà l’intera Europa a entrare in difficoltà con un ammontare complessivo degli investimenti sulle grandi partite delle transizioni digitale e ambientale che risulta essere una frazione di quello previsto in America e in Asia. Anche grazie a noi l’Africa emergerà con tutta la forza di un continente nuovo. E forse sarà bene tenerci agganciati alla sua traiettoria.
I tempi cambiano a una velocità che non siamo abituati a sostenere. Anche nell’uso dell’Intelligenza artificiale, tema che infonde perlopiù timore e la cui dinamica cerchiamo d’imbrigliare in regolamenti, non brilliamo in vivacità. E la cooperazione tra il sistema delle imprese e quello delle università si mantiene ai minimi termini (19esimi in Ue) nonostante gli interessanti progressi che pure sono stati fatti.
Il passaggio all’ambiente che vorremmo – con zero emissioni di carbonio al 2050 – costa molto più di quanto ci possiamo permettere. Anche recuperando il principio della neutralità tecnologica, che dovrebbe salvaguardare le nostre peculiarità, occorrerà creare le condizioni per liberare moltissimo capitale privato da affiancare a quello pubblico che sembra tanto, ma è solo una frazione di quello che serve.
Siamo bravi nella riduzione dei rifiuti, nel riciclo degli imballaggi, nel funzionamento della circolarità. Ma l’ammontare delle risorse che servono a cambiare passo resta modesto. E le imprese continuano a denunciare il peso di una burocrazia che non si capisce in quale campionato giochi e per quale squadra tifi tanto risulta ostile a un cambiamento che sarebbe bene cavalcare invece che subire.
In un quadro generale che gli esperti presentano come “turbolento”, le imprese italiane investono con il freno tirato anche per l’eccessiva timidezza del settore finanziario. E non cresce la produttività. La ragione? Abbiamo poca cura del nostro capitale umano, delle persone coinvolte nei processi produttivi e nei servizi. E resta amplissima la distanza tra le competenze che servono e ciò che offre il mercato.
Torniamo al punto di partenza (siamo o non siamo campioni di circolarità?). Per lo sviluppo occorrono talenti, oggi più che mai. Non basta formarli, c’è bisogno di farli restare. La forza del Made in Italy, la diversificazione delle nostre produzioni, la voglia d’Italia nel mondo dovrebbero essere sufficienti allo scopo. Invece tutto questo non è sufficiente anche se con il Pnrr qualcosa potrebbe cambiare.
Resta ampio il divario tra il Nord e il Sud con una differenza del Pil procapite del 44%. Anche se negli ultimi tempi il Mezzogiorno sta mostrando segnali di ripresa, il punto di partenza è così lontano che si fa fatica a immaginare un aggancio nel prossimo futuro. Che sarà invece segnato dal tentativo di attuare la riforma per l’autonomia delle Regioni alla base di furiose discussioni tra favorevoli e contrari.
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