Spunta verso la fine il paradosso che in un certo senso regge Made In Usa – Una fabbrica in Ohio (che d’ora in poi chiameremo col più ficcante titolo originale American Factory), il film prodotto dalla società dei coniugi Obama che ha di recente vinto l’Oscar per il miglior documentario: un dirigente cinese che per spingere i propri dipendenti a votare contro la creazione di un sindacato dice “Let’s make America Great again”, lo slogan con cui Trump è stato eletto presidente.
Un paradosso che il film, diretto da Steven Bognar e Julia Reichert, incarna nella Fuyao, una società metalmeccanica cinese che acquisisce una fabbrica dismessa dalla General Motors per avviare i suoi affari in Usa. Le ottime premesse iniziali diventeranno uno scontro di civiltà tra modi opposti di intendere il lavoro e i diritti dei lavoratori.
Come una sorta di remake in chiave sindacalista di Gung Ho, la commedia di Ron Howard del 1986 che raccontava la stessa storia ma da posizioni politiche (e conseguenti opzioni narrative) molto più conciliatorie col sistema capitalista americano, American Factory è un documentario che mescola l’osservazione – cara al nume tutelare del documentario americano Frederick Wiseman – con la costruzione drammaturgica e ironica del genere post-moderno per raccontare il legame tra il liberismo deregolato americano e la propaganda dittatoriale cinese.
Seguendo contemporaneamente le vicende di operai e dirigenti, in particolar modo i capi-reparto incaricati di mediare tra i due mondi, Bognar e Reichert raccontano le nuove frontiere del capitalismo globale nel passaggio dalla delocalizzazione, che esporta il lavoro in terre dove costa meno, alla “rilocalizzazione” se così si può dire, ovvero le politiche di espansione economica e di potere politico, un passaggio che, come detto sopra, vive del paradosso per cui la forza colonizzatrice è l’unica grande potenza rimasta in piedi che si possa definire comunista e i colonizzati sono l’impero capitalista per eccellenza.
In questo ribaltamento di forze, prospettive e punti di vista, il film racconta il modo in cui il potere incute paura, minaccia, costruisce la realtà attraverso la propaganda – che ora si chiama “narrazione” o “storytelling” – diventando un braccio oppressivo dentro un sistema democratico. Una precisa assunzione di responsabilità politica da parte dei registi che legano direttamente la gestione di un’azienda e quella di uno Stato (gli agghiaccianti balletti alla convention aziendale in Cina; Trump, d’altronde, era un imprenditore prima di diventare un “politico”); assunzione che passa anche dalle scelte di costruzione e di montaggio che allargano lo sguardo dal singolo individuo al gruppo per arrivare all’istituzione.
Bognar e Reichert si rifanno alla grande tradizione, di recente riscoperta dopo lustri di oblio, del cinema operaio, dai documentari di Barbara Kopple (i premi Oscar Harlan County, USA e American Dream) al cinema mainstream (uno dei personaggi dice: “Bisogna fare come Sally Field” riferendosi a Norma Rae di Martin Ritt), e la adattano ai tempi, sia nella riflessione socioeconomica, sia nei modi cinematografici, osservano senza intervenire ma non restano in disparte, attraverso le scelte filmiche narrano e commentano, ironizzano a tratti ma sempre con empatia, come nel personaggio dell’operaio cinese che si integra con la comunità americana tanto da rivedere i propri principi di vita.
American Factory è un film che mostra come il modo migliore per essere vicini e fedeli al proprio Paese sia quello di metterlo costantemente in discussione, fin nelle sue fondamenta. Anche significasse chiedere ai lavoratori di tutto il mondo di unirsi.