Una mamma 40enne ha confessato di aver annegato in mare il figlio di due anni. La tragedia accade a Torre del Greco, nel napoletano. Stando ad una prima ricostruzione si erano sentite delle urla, delle grida con richiesta di aiuto. La madre stava con il bimbo e si era visto un adulto buttarsi in mare. Pareva fosse il padre senonché si è poi scoperto che questi aveva denunciato alle forze dell’ordine l’allontanamento della moglie con il figlio intorno alle 21 di quella stessa sera. La salma del bambino è stata poi ritrovata senza vita e in un primo tempo la madre aveva detto di essere stata vittima di una rapina da parte di una persona straniera. Poi ha confessato e ora si trova nel carcere femminile di Pozzuoli gravemente indiziata per omicidio volontario del figlio.
A quanto si sa, la mamma era convinta che il figlio fosse affetto da problemi di ritardo mentale nonostante non ci fosse alcuna conferma da parte dei sanitari.
Uccidere un figlio è un gesto assolutamente innaturale, inconcepibile. La storia di Torre del Greco ci lascia sbigottiti anche se il successivo tentato suicidio ci chiede con ancora più forza di evitare ogni forma di giudizio. In tempi di Covid la tutela della salute mentale si evidenzia sempre più come l’ultima delle priorità: una cenerentola lasciata alla gestione autonoma delle famiglie che troppo spesso finiscono con lo sgretolarsi di fronte a patologie terribili. L’inclusione delle fragilità rimane una chimera e chi ha difficoltà psicologiche viene lasciato indietro.
In più la malattia mentale è ancora ammantata da pregiudizi e false credenze che impediscono di identificarla e curarla correttamente. Gli standard di perfezione e di prestazione ottimale cui la società sottopone noi e i nostri figli è possibile abbiano ingigantito ed esacerbato nella donna delle paure infondate.
La croce di legno che rimane sulla spiaggia dove è stato trovato morto quel povero bambino è un monito a tutti: alla voglia di primeggiare ad ogni costo, al nostro desiderio di avere figli “perfetti”, adeguati alle richieste di una società competitiva e troppo veloce. Al di là delle dichiarazioni di intenti il nostro tempo è ancora tutto permeato da quella “cultura dello scarto” che evita di confrontarsi con la fragilità, con chi arriva per secondo o che addirittura fatica ad arrivare.
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