Due donne, un anno di tempo: Alice era detenuta nel carcere di Rebibbia quando, nel 2018, scaraventò i suoi figli giù per le scale dell’asilo nido del carcere, procurandone la morte. Barbara (il nome è di fantasia) è una benestante laureata in legge che due giorni fa, forse per timore di perdere l’affidamento della figlia di due anni e mezzo, si è scagliata dagli ultimi piani delle scale interne di un palazzo di Milano con la bimba fra le braccia, impattando violentemente a terra senza che alla piccola miracolosamente accadesse qualcosa. Alice ha sempre affermato di aver voluto dare la libertà ai suoi figli con quel gesto, Barbara aveva preparato una memoria difensiva in cui sosteneva di essere la madre migliore per la sua piccolina.
Entrambe queste storie, e il lungo anno che le divide, sfidano l’opinione pubblica ad andare oltre il comprensibile orrore, e l’altrettanta comprensibile repulsione che le accompagna, per porsi una domanda più profonda e pertinente la vita di tutti: che cosa può salvare un figlio? Un genitore può essere l’orizzonte totalizzante della vita di un bambino?
Mai come nella nostra società i figli sembrano un onere dei genitori, un qualcosa delegato alla loro completa responsabilità e alle loro capacità. Il paradosso di questo tempo così diffidente verso l’istituto familiare è quello di aver reso la famiglia una torre in cui deve compiersi il miracolo dell’educazione e della crescita integrale della persona. La scuola, gli oratori, le società artistiche o sportive sono ridotti ad agenzie educative che interloquiscono circa i ragazzi, ma verso i quali non hanno alcuna possibilità reale di intervento. È l’io del papà e della mamma che deve bastare al tu del piccolo, è in quello strettissimo triangolo – minato da narcisismi malcelati e infiniti disturbi di personalità – che si giocano le barriere morali, i limiti etici e le problematiche più disparate: i genitori sono condannati ad una gigantesca bolla di solitudine in cui adempiere al proprio compito senza averne, fino in fondo, le capacità umane e affettive.
Quello che è venuto meno è la comunità, quella comunità che affida i bimbi alle cure di due genitori col tacito patto che essi dovranno tornare indietro più consapevoli e più grati di appartenere ad un popolo, piuttosto che ad un clan nel quale recuperare sicurezza e in cui essere sindacalmente difesi ogni qual volta la vita chiamerà ad un passo e ad una sfida in più.
Nella follia di queste madri sta la tracotanza dell’uomo occidentale, illuso di poter bastare all’ampiezza infinita del cuore di un figlio. Solo una storia educa, solo un villaggio fa crescere. Imparare a sguardare i nostri figli da lontano, consapevoli della limitatezza del nostro compito di genitori, è il primo passo per passare da un groviglio di storie senza via d’uscita ad un susseguirsi di epifanie in cui il figlio non è ciò che plasmo io, ma ciò che scopro nel rapporto con me stesso e con il tempo che lo accoglie, a volte apparentemente così estraneo e così meschino. Ma è quella meschinità che inibisce la nostra violenza, che ci riconsegna alle nostre case come padri e come madri e non come mostri letali all’esistenza e al cuore di fragili creature che ci vennero affidate in custodia e non, come a volte sembra, assegnate in proprietà.