Dunque Mafia Capitale non era mafia: la Cassazione ha sancito in modo definitivo sulla fattispecie (andranno invece ricalcolate le pene, ovviamente). È certamente una sconfitta per la Procura, ma quella di martedì è una sentenza che, a mio giudizio, fa comunque fare un passo avanti nella lotta alle mafie. A patto, ovviamente, di trarne le giuste indicazioni.



Invece il rischio è che fuori dal circuito degli addetti ai lavori si dicano tante sciocchezze. Soprattutto se prevarrà l’ansia di politicizzare la polemica. C’è chi ne approfitterà per difendere l’indifendibile e chi griderà allo scandalo, al complotto, magari rispolverando il “porto delle nebbie” e Carnevale, l’ammazza-sentenze.



Indulgere in certe reazioni sarebbe ingeneroso e superficiale.

Ingeneroso e superficiale, perché rischia di far dimenticare che gli imputati sono stati condannati per reati molto gravi, che il ritratto del “Mondo di mezzo” che esce dalle carte del processo è molto preoccupante dal punto di vista del profilo penale, inquietante da quello dello spaccato sociale e politico. Il fatto che non si tratti di associazione mafiosa non toglie nulla a questa triste verità.

Superficiale e ingeneroso, perché potrebbe portare alcuni a dire che la Procura ha tirato fuori l’imputazione per mafia solo per attirare su di sé quell’attenzione mediatica, che dai tempi di Mani Pulite molti pubblici ministeri ritengono la cosa più importante in un’indagine di questo tipo. Vuoi per avere visibilità per sé, vuoi per avere il sostegno “da fuori” che reputano fondamentale quando ci sono di mezzo i cosiddetti “potenti”.



Quest’ultimo elemento è stato presente, non lo nego, e ha contribuito ad azzardare un’accusa difficile da provare. Ma credo non sia stato determinante per convincere Pignatone a procedere in quella direzione. O comunque, questo è ciò che più conta, non lo è più adesso che si è arrivati a sentenza definitiva. Rispolverarlo serve solo a distrarre l’attenzione dalle cose importanti e che hanno una rilevanza per il futuro.

Sarà dunque molto importante leggere le motivazioni, perché il tema del processo che si è chiuso martedì è stato fin dall’inizio quello di valutare se fosse possibile adattare a quella fattispecie di comportamenti criminali la definizione di associazione mafiosa. I magistrati hanno dunque agito come un sarto che prova a confezionare un abito su misura.

Spero non desti scandalo il paragone con l’abito sartoriale, metafora che ho preso in prestito da uno scritto di un grande magistrato di Cassazione, Antonino Scopelliti. Il sostituto procuratore, ucciso dalla mafia il 9 agosto 1991 per impedirgli di sostenere l’accusa nel maxi-processo contro Cosa nostra, ha scritto: “La norma che si dà il legislatore è un vestito confezionato. Deve essere il giudice, man mano che si interessa dei vari casi, a trasformarlo in un vestito su misura, che è il giudizio di valore sul comportamento del singolo imputato”.

La sentenza, dunque, è rilevante non solo perché “se tutto è mafia, niente è mafia”, ma soprattutto perché se la mafia muta, essere capaci di definirla sempre più precisamente è l’unico modo per riconoscerla, condizione – quest’ultima – che a sua volta è necessaria per sconfiggerla.

Segnalo sul punto solo un elemento (lascio agli esperti gli approfondimenti). La sentenza di primo grado ha detto “non è mafia”, quella di appello ha detto “è mafia”. Ma non lo ha detto sulla base di un’improvvisa folgorazione sulla via di Damasco. Lo ha detto proprio sulla base di alcune sentenze della Cassazione, in particolare quelle relative alle “piccole mafie” (definizione della Corte stessa) come quella di Ostia.

Dunque, restando nella metafora di Scopelliti, la Corte ci sta dicendo che il vestito confezionato denominato “416 bis” (associazione di tipo mafioso), è un vestito che può essere trasformato in un vestito su misura per la mafia di Ostia, ma non per il sodalizio criminale tra Buzzi e Carminati. E secondo me il fatto che i magistrati si siano sforzati di individuare le differenze tra questi due crimini è un’ottima notizia. Non solo per la tutela degli imputati e la salvaguardia dello Stato di diritto, ma anche – come ho detto in principio – per la lotta alla criminalità organizzata. La lettura delle motivazioni, infatti, sarà l’occasione per fare un passo avanti nella definizione del fenomeno mafioso e quindi per combatterlo in modo più efficace.

La politica potrà reagire in due modi: dando ai magistrati inquirenti e alle forze dell’ordine gli strumenti adeguati a contrastare il fenomeno mafioso per come è cambiato nei secoli oppure modificando il 416 bis in modo tale che il prossimo Carminati possa essere chiamato mafioso.

Chi scrive pensa che la norma debba continuare a essere un vestito confezionato e che non sia utile trasformarla in un insieme di commi che corrispondano ciascuno a un abito sartoriale. È bene che il mestiere del sarto continui a farlo il magistrato giudicante, lasciando agli inquirenti il compito di fare ipotesi da sottoporre al suo “giudizio di valore sul comportamento del singolo imputato”. In un sistema dove i due magistrati devono sempre più svolgere mestieri diversi, che non sarebbe male prevedessero carriere diverse. Ma questo è un altro discorso.