Le ultime relazioni semestrali della DIA, che è l’organo investigativo pensato da Giovanni Falcone per svolgere le indagini sulle mafie, sono assolutamente impietose. Vi ritroviamo la conferma che le organizzazioni mafiose, da tempo avviate ad un processo di adattamento ai diversi contesti socio-economici ed alla penetrazione dei settori imprenditoriali, hanno sostituito l’uso della violenza, sempre più residuale, ma mai ripudiato, con strategie di silenziosa infiltrazione e con azioni corruttive.
La mafia più strutturata si evolve sui mercati finanziari e le manovalanze, sempre più giovani, sgomitano, spesso in maniera sguaiata, alla ricerca di un posizionamento utile a scalare le gerarchie criminali.
Questa ricostruzione e gli impietosi dati forniti, purtroppo, non rappresentano niente altro che la sconsolante fotografia di una presenza costante e quasi ineluttabile delle organizzazioni criminali nel nostro Paese. Quel che preoccupa di più, però, è l’assuefazione, che sembra ormai aver avvolto questo fenomeno in tutte le sue lugubri espressioni. Dover piangere un giovane ammazzato per mano di un suo coetaneo sembra sia diventato esercizio normale ed obbligato in un contesto di criminalità latente a tutti i livelli.
Negli ultimi mesi a Napoli sono stati barbaramente uccisi Francesco Pio Maimone di 18 anni, Giovanbattista Cutolo, musicista di 24 anni, Emanuele Tufano di 15 anni e, ultimo solo in ordine temporale, Santo Romano, il portiere di calcio di 19 anni, freddato con un colpo di pistola al petto.
Tutti i loro carnefici individuati sono minorenni.
La cronaca napoletana delle ultime settimane, in particolare, è agghiacciante. Il 27 ottobre scorso due ragazzini di 14 e 16 anni sono stati fermati dai Carabinieri nella zona della movida di Chiaia, per detenzione di coltelli con lame da ventitré centimetri; ad agosto un ragazzo di 16 anni ha ucciso a bruciapelo il suo migliore amico, Gennaro Ramondino di 20 anni, a Pianura e successivamente ne ha bruciato il corpo. Agli investigatori avrebbe confessato di averlo fatto per compiacere un boss della camorra, convinto di poterla fare franca grazie alla sua giovane età.
Tre settimane fa è toccato ad Emanuele Tufano, 15enne, ucciso da suoi coetanei in seguito ad una sparatoria avvenuta nel centro storico di Napoli. L’ultima vittima è stata Santo Romano, ucciso con un colpo di pistola al petto nella notte tra venerdì e sabato 2 novembre a San Sebastiano al Vesuvio.
I particolari e le possibili connessioni tra alcuni di questi episodi sono ancora più preoccupanti. Il giovane che ha ucciso l’anno scorso Francesco Pio sembra infatti che fosse amico dell’assassino di Santo Romano ed entrambi erano legati al figlio di un boss mafioso del clan Aprea, più volte arrestato per porto illegale di armi. C’è una foto inquietante che riprende i tre soggetti, che a quanto pare avevano un forte legame di amicizia e “fratellanza”, pubblicata sui social pochi giorni dopo l’uccisione di Francesco Pio Maimone proprio dal boss. Sembra una sorta di sostegno pubblico all’assassino e a quello che ha fatto. Questa amicizia mafiosa evidentemente non è casuale e ha contribuito almeno ad armare le mani omicide. Entrambi, peraltro, avrebbero ucciso per lo stesso incredibile movente: perché le loro scarpe firmate da centinaia di euro erano state sporcate.
Ci sono matrici comuni in queste tragedie, condotte simili, addirittura stesse amicizie e legami pericolosi, e gli esiti purtroppo sono assolutamente drammatici.
C’è allora l’urgenza assoluta di disarmare questi giovani e chi li sostiene. E su questo fronte tantissimo stanno facendo le forze dell’ordine e la magistratura. Ma esiste una necessità altrettanto evidente che è quella di sviluppare efficaci percorsi di recupero e rieducazione per intere generazioni di ragazzi e ragazze che vivono quotidianamente bombardati da messaggi fuorvianti, da cui emerge che portare armi ed usarle sia una cosa normale, tanto da indurre alcuni giovanissimi a pensare che il coltello sia ormai un accessorio indispensabile per difendersi.
In tal modo il possesso di armi è diventato giustificato proprio perché si tratterebbe di strumenti atti a difendere e non più ad offendere, come invece anacronisticamente la legge ancora li considererebbe. Sono narrazioni talmente diffuse e propagandate, soprattutto su certi social, da indurre in errore anche giovani rampolli di famiglie perbene.
L’incontro ed il dialogo pluriennale coi ragazzi nelle scuole mi rimandano la stringente necessità di intervenire sui modelli educativi e sul processo di crescita, che sembra ormai disancorato dal binomio responsabilità/punizione.
Di contro, le fortunatamente tante storie di ragazze e ragazzi che ce l’hanno fatta, grazie anche ad un incontro a scuola ed all’attivazione di un processo di riflessione e maturazione di coscienza e consapevolezza, dimostrano l’utilità di percorsi di formazione e apprendimento di esempi positivi.
Quali sono gli esempi che diamo e che modelli trasmettiamo ai nostri figli? Queste sono le domande a cui non possiamo più permetterci di non rispondere.
Il tempo è già scaduto.
L’antimafia oggi è soprattutto questa, perché, come ci ha insegnato Paolo Borsellino, “solo se la gioventù le negherà il consenso, anche la onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”.
Eppure, la gioventù non può farcela da sola senza una consapevole azione di indirizzo da parte di quelli che probabilmente proprio perché già caduti in errore o per averne accusato pesantemente le conseguenze, dovrebbero oggi sentire più stringente il bisogno di agire con tutti i mezzi a disposizione. Sperando che non sia già troppo tardi.
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