Martedì scorso l’America non ha solo bocciato come candidato presidente l’ex procuratore generale dem della California Kamala Harris (facendo vincere Donald Trump, appena condannato da un procuratore di New York, Alvin Bragg, noto per il suo estremismo giudiziario iperpoliticizzato dem). Los Angeles, la megalopoli più importante della California e della West Coast, si è confermata bastione dem nel voto per la Casa Bianca ma ha respinto la ricandidatura di George Gascón: un procuratore distrettuale iper-dem assurto a fama nazionale come teorico della “giustizia riparativa”. Una dottrina politico-giudiziaria ancora più strutturata di quella enunciata dal collega italiano Antonio Ingroia, candidatosi senza successo a parlamentare perché convinto che alla magistratura competa il compito di “correggere gli errori della democrazia”.
Mentre l’attorney Bragg a Manhattan si limita a prosciogliere programmaticamente ogni appartenente a una minoranza arrestato dai poliziotti per un reato non grave, Gascón sostiene che i magistrati abbiano fra i loro diritti-doveri – forse principali – la correzione degli errori commessi dai loro colleghi: ma non nei gradi di giudizio di un processo ordinario, quanto in sentenze di decenni prima. E non per l’emergere di nuovi elementi di fatto, quanto perché oggi giudicabili “ingiuste” alla luce di nuovi valori sociopolitici.
Esemplare l’ultimissima iniziativa-comizio di Gascón: la riapertura del caso di due fratelli che nel 1989, ventenni, uccisero a coltellate i loro genitori a Beverly Hills e sono in carcere da allora. Due esponenti della gioventù dorata di Hollywood: ma anche loro – non solo il piccolo criminale di strada intossicato di oppiacei – avrebbero diritto a vedersi riconosciuti i benefici della “giustizia riparativa”. Vedendo finalmente accolta in concreto la loro autodifesa di sempre: avrebbero agito per la paura di venire uccisi dal padre, un ricco produttore cinematografico, a sua volta spaventato dall’idea che i figli potessero rivelare presunti abusi sessuali. Un classico caso di MeToo, per quanto inserito nella cronaca più nera e nel format più estremo della giustizia ideologica.
Al contrario di quanto afferma il magistrato italiano Piercamillo Davigo, per Gascón è dunque chiaramente falso che un innocente sia solo un “colpevole non ancora scoperto”, semmai viceversa: nel ventunesimo secolo “politically hyper-correct” anche un cosiddetto “colpevole” (per esempio un assassino confesso) alla fine può trasmutare nell’innocenza: e non per una revisione puramente giudiziaria o per uno sconto di pena previsto dalla legge, ma sulla base di una completa riscrittura politico-culturale del caso. Compito della magistratura odierna sarebbe affermare e realizzare questo nuovo verbo politico-giudiziario.
Nella stessa visione, l’ex magistrata e senatrice californiana Harris sosteneva nelle primarie dem del 2020 il diritto dei migranti latinos a varcare indisturbati la frontiera meridionale degli Usa. Quattro anni dopo i primi a non credere che avesse cambiato idea sono stati gli elettori dem. Gli stessi che hanno cacciato Gascón sostituendolo con un dem centrista, Nathan Hochmann. Un israelita come il nuovo sindaco di San Francisco, Daniel Lurie: a sua volta chiamato dagli elettori della città più libertaria d’America perché ferocemente delusi dall’estremista dem London Breed (una donna afro).
Entrambi i “santuari” californiani stanno diventando sempre meno vivibili per il boom della criminalità (come del resto le metropoli del Midwest e della East Coast, anche sotto le ondate dell’immigrazione incontrollata). Per non parlare delle scuole pubbliche, dove – per direttiva pubblica – gli standard di insegnamento e valutazione vengono programmaticamente abbassati per includere ogni “minoranza”. Troppo anche per i dem della Silicon Valley e Hollywood. Che sono corsi ai ripari, potendo peraltro far leva su un sistema giudiziario che i dem italiani (oggi guidati da una dem con passaporto Usa) fanno sempre finta di ignorare per non disturbare i magistrati “democratici”.
È un sistema in cui la politicizzazione della magistratura è istituzionale e attorneys e judges sono elettivi, a livello locale e federale. È un’architettura istituzionale in cui la giustizia può fare politica, anzi per molti versi è incoraggiata a farlo: ma sempre sotto il diretto e periodico controllo democratico. Gli studiosi di diritto comparato eccepiranno che la civiltà giudiziaria angloamericana – basata fra l’altro sulla common law – è radicalmente diversa da quella europea, disegnata invece sulla divisione illuministica dei tre poteri dello Stato e sulla totale autonomia della magistratura come corpo separato, con la prerogativa esclusiva di applicare (o disapplicare) le norme parlamentari o esecutive. In uno spazio-tempo formalmente autonomo, ma con licenza di intervenire in conflitto con il governo. Il punto è questo: in America come in Italia, in questi giorni.
Nel frattempo i dem americani, sconfitti al voto, paiono inseguire la “costituzione materiale” italiana meno nobile sulla frontiera fra politica e giustizia. Vorrebbero accelerare al massimo un’infornata di loro giudici federali – soggetti ad approvazione del Congresso – prima che si insedino Trump e le due nuove Camere elette a maggioranza repubblicana. Peggio ancora: i vertici di un’amministrazione e di un partito battuti senza appello hanno fatto nuove pressioni su Sonia Sotomayor – 70enne giudice della Corte Suprema, nominata da Barack Obama – perché si dimetta su due piedi e liberi il seggio a vantaggio “riparativo” di Harris, anche in funzione di futura “resistenza” al ritorno trumpiano. Sotomayor – una vera giurista di Yale e Princeton e una vera figlia di immigrati caraibici – si è però rifiutata di cedere il posto nell’Alta Corte a una candidata priva di curriculum e imposta da una Casa Bianca ormai priva di un consenso maggioritario nel Paese.
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