Majidreza Rahnavard, wrestler ventitreenne, è stato condannato a morte in Iran perché colpevole di avere partecipato alle proteste contro il Governo per l’uccisione di Mahsa Amini. Le accuse, come per gli altri manifestanti, erano quelle di “moharebeh”, “inimicizia contro Dio” secondo la sharia e il presunto omicidio di due membri della milizia paramilitare dei basiji, impiegati nella repressione. È per questi motivi che lunedì scorso è stato impiccato ad una gru nella città di Mashhad al culmine di un processo farsa.
“Quando sarò sepolto non voglio pianti o che leggiate il Corano. Festeggiate e suonate musica gioiosa”, ha affermato, come riportato da La Stampa, ai microfoni di un giornalista che lo ha avvicinato prima dell’esecuzione, avvenuta per la prima volta in pubblico dall’inizio delle proteste. Il giovane, con una benda nera sugli occhi, è apparso tranquillo e mai pentito, nonostante la morte ormai imminente.
Majidreza Rahnavard, condanna a morte per proteste in Iran: il fenomeno
Il caso della condanna a morte di Majidreza Rahnavard dopo le proteste in Iran per l’uccisione di Mahsa Amini ha riscosso un importante clamore mediatico. “La violenza del Governo spaventa ancora la generazione dei genitori ma la soglia della paura nei ragazzi è già stata abbondantemente superata”, così Thamar Eilam Gindin, esperta israeliana delle dinamiche del Paese ed analista per il Centro Ezri dell’Università di Haifa, ha commentato lo spirito di ribellione del wrestler ventitreenne impiccato pubblicamente nella sua città natale.
“Majidreza, nel video, non hai usato la parola tomba, ma mausoleo. Quindi un luogo destinato a diventare meta di pellegrinaggio. Sapeva di essere destinato a diventare uno “shahid”, ovvero un martire di questa rivoluzione. I manifestanti anti regime dicono di non volere l’Islam, di non volere essere considerati musulmani. Usano l’espressione “bid-in”, senza religione. Non si fanno intimorire, al contrario si infuriano”, ha concluso.