Non è facile capire cosa sia successo la notte del 13 febbraio 2019 all’Istituto Dermopatico dell’Immacolata (IDI), quando una donna di 47 anni, affetta da cancro del colon, è morta dopo la somministrazione di un’iniezione da parte di un medico regolarmente assistito da una infermiera. L’IDI è un antico ospedale romano, fondato nel 1912 dalla Congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione, divenuto nel 1990 istituto di ricovero e cura a carattere scientifico e passato nel 2015 alla Fondazione Monti, guidata da padre Giuseppe Pusceddu. Un ospedale di sicura impronta cattolica, in cui la competenza professionale e la qualità dell’assistenza, soprattutto in fatto di determinate patologie, è nota e apprezzata in tutta Europa.



Un medico, laureato all’Università Cattolica e specializzato al Gemelli, rischia ora il processo per omicidio volontario, insieme all’infermiera che lo ha assistito, per aver iniettato una dose letale di cloruro di potassio a una paziente terminale.

Sembra che la paziente, nonostante avesse una prospettiva di vita di poche ore e fosse stata profondamente sedata, come prevede la legge 38 sulle cure palliative, fosse molto agitata, tanto che la sua sofferenza appariva ai familiari presenti nella stanza pressoché insopportabile. Motivo per cui il marito chiese al medico di intervenire per ridurre il profondo disagio che accompagnava la sua agonia.



Il racconto del marito, fatto al pm nel corso di un’audizione, è molto chiaro: “Lei si agitava e rantolava, nonostante mi fosse stato assicurato che durante la sedazione non avrebbe sofferto. Arrivò il medico di guardia, E.P., che cominciò ad armeggiare con la flebo. Chiesi perché mia moglie continuasse ad essere agitata e il medico mi rispose che avrebbe visto cosa poter fare. Uscì dalla stanza e al suo ritorno iniettò un liquido nella flebo della donna, che dopo cinque respiri morì”.

Fin qui la testimonianza del marito e quella del medico sembrano convergenti, tanto che il marito ritenne a lungo che la moglie fosse morta di morte naturale. In realtà nella flebo era stato introdotto del cloruro di potassio, classico farmaco in grado di procurare la morte in una manciata di secondi.



Un vero e proprio caso di eutanasia attiva, in cui manca non solo il consenso della paziente, ma anche il consenso del marito che si è detto contrarissimo all’eutanasia e ha ribadito: “Avevo chiesto di dare a mia moglie qualcosa per non farla soffrire, non per condurla alla morte. Prima della sedazione chiedemmo del tempo affinché potesse congedarsi da noi”.

Nel frattempo sono stati licenziati sia il medico che l’infermiera, entrambi in attesa del processo che potrebbe coinvolgere anche il marito, perché a questo punto la narrazione del marito e quella del medico divergono. In attesa di capire come si regoleranno i magistrati, questo caso merita di essere analizzato in profondità, per almeno due motivi.

È ben diverso dai casi patrocinati da Cappato in nome del principio di autodeterminazione, perché a quanto pare qui non c’è stata nessuna autorizzazione scritta da parte della paziente e soprattutto perché non c’è stato alcun coinvolgimento delle istituzioni, a cominciare dalla Asl di riferimento, come è accaduto negli altri casi, in cui la stessa Asl aveva fornito il famoso kit della morte. Questa sembra essere stata un’iniziativa del medico, su pressione del marito, per ridurre il dolore e la sofferenza della donna, anche se il marito molto probabilmente non aveva nessuna intenzione di spingersi fino alla morte. Tanto da aver dichiarato: “Agirò contro questo medico, l’ho deciso appena ho appreso che mia moglie era morta per via del suo intervento. E lo stesso farò nei confronti di coloro che mi hanno dipinto come un questuante della morte”.

Su questo si esprimeranno i magistrati, d’altra parte la procura ha chiesto il rinvio a giudizio per i due sanitari dell’IDI sulla base della cartella clinica siglata dal medico, che ha “correttamente” riportato l’iniezione, pur conoscendone tutte le conseguenze sul piano medico-legale.

Ma vale la pena ricordare che anche questo caso rientra in quel rifiuto del dolore e della sofferenza che sono una delle note più caratteristiche del nostro tempo e rivelano come l’uomo moderno si senta impreparato davanti all’esperienza del profondo disagio che accompagna l’agonia degli ultimi momenti di vita. Molto spesso il dolore e la sofferenza fanno più paura della morte, sia al paziente che ai suoi familiari, e a volte anche agli stessi medici e agli infermieri. Dobbiamo tornare a meditare sulla morte, sul suo significato, sulla sua presenza inesorabile nella nostra vita, così come dobbiamo tornare a meditare sul dolore e sulla sofferenza. Sono appuntamenti a cui non ci si può sottrarre, ma che vanno preparati, psicologicamente e spiritualmente. Non a caso il dolore che precede e accompagna la morte ha un suo nome ben preciso: agonia, e vorremmo sfuggirlo, perché la sofferenza del morente può fissarsi nella mente dei familiari come immagine negativa ultima e persistente che, spesso, rischia di vanificare un consolante giudizio su un intero percorso di “buone cure”.

Un’ultima osservazione riguarda il medico, piuttosto giovane all’epoca dei fatti e probabilmente inesperto sul modo di trattare i pazienti in fase terminale. La formazione in cure palliative è una cosa seria che implica competenze di natura scientifica: trattamento del dolore, di natura psicologica: nel rapporto con il paziente e i suoi familiari, di natura clinico-assistenziale nel gestire la malattia fino al termine della vita. Una formazione che non si improvvisa e che non è appannaggio esclusivo dei medici palliativisti, ma deve diventare una sorta di forma mentis indispensabile per chi vuole prendersi cura dei malati assistendoli fino alla loro morte. Non basta dire “no all’eutanasia”, occorre dire un sì convinto alle cure palliative e alla formazione in cure palliative; questa è forse la cosa migliore contenuta nella sentenza 242/2019 della Corte costituzionale in discutibile difesa di Cappato.

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