Filippo e Francesca non sono sposati, stanno assieme da 28 anni e hanno una figlia di 17. Se raccontata fino a un paio di decenni fa sarebbe una storia scandalosa, ma oggi è solo una cosa normale che a nessuno interessa e per la quale non vale la pena perdere tempo. Accade però che Filippo divenga un malato terminale e decida di sposarsi. E allora, proprio perché normale è convivere senza sposarsi, tutto si ribalta e quella che era una storia qualsiasi diventa una notizia.
Accade a Torino, al reparto di Medicina 2 dell’ospedale Giovani Bosco e avviene anche che Francesca ringrazi tutti sulla pagina Facebook dell’Asl. Tutti? Sì, perché tra lo stato di salute dello sposo, la burocrazia e le regole anti-Covid, gli ostacoli da superare non erano pochi. Ma, anche se non c’erano i fiori e gli abiti d’occasione, c’era la ferma determinazione di dare una veste istituzionale, comunitaria, ufficiale, al loro amore. Secondo le cartelle cliniche, Filippo sta compiendo gli ultimi passi in questo mondo. E l’ha voluto fare da marito, non solo da “fidanzato”, “compagno” o papà.
In questa storia manca la parola sacramento. Qualcuno penserà che in questa mia narrazione manca l’espressione “sacramento del matrimonio”. Ma non è un errore, è che Filippo e Francesca si sono sposati civilmente. Questo toglie qualcosa e aggiunge qualcosa. Toglie, ovviamente, la dimensione ecclesiale della scelta, ma aggiunge il valore civile, umano, del bene comune del matrimonio.
Sposarsi dopo ventotto anni quando sei malato terminale all’ospedale significa dire un sì che nel tempo durerà poco, ma proprio per questo salva il significato della promessa umana fatta non solo all’interno della coppia ma davanti alla società civile. Il matrimonio, anche al di fuori del sacramento, ha una dimensione pubblica: quella appunto che viene annunciata dalle “pubblicazioni” che normalmente, quando ci si sposa in Chiesa, hanno valore sia civile che religioso. E così Filippo e Francesca, oltre al valore privato del loro sì “uno con una per sempre”, del loro sì che va oltre la morte, diventa un dono per sempre davanti alla società civile. Cosa che per un cristiano non è tutto ma neppure è nulla.
Io non chiamerei “un nulla” il testimoniare anche solo civilmente e laicamente che promettersi per sempre tutta la vita ha valore. È un po’ come avviene alla vedova che al tempio lascia gli unici suoi denari. La ricchezza vera non sta tanto nell’avere tanto denaro o possedere tanti beni, ma nel dare un grande valore a quello che si dà o si ha. Promettere un per sempre quando si hanno pochi giorni di vita davanti a una società civile che spesso non lo valorizza, vuol dire veramente fare della vita un dono d’amore e dare intensità a ogni attimo essendo coscienti che amore è dare la vita. E questo è meraviglioso anche se manca qualcosa d’importante come il sacramento del matrimonio