Caro direttore,
le cronache spesso ci colpiscono per eventi drammatici che hanno come protagonisti persone con malattia psichiatrica. Di solito la reattività la fa da padrona: uno strale al sistema delle cure, un accidenti all’assistente sociale, di solito uniti a qualche “auspicio” per gli autori dei fatti che restano oggettivamente gravi.
C’è però un approccio discreto, quotidiano, laborioso che può rappresentare un’efficace alternativa alla sommarietà e alla formalità di un rapporto con efficacia preventiva e curativa.
Le trasmetto una lettera scritta da una nostra ospite, giunta al termine del percorso nella comunità di riabilitazione ad alta intensità, che proseguirà le cure in altro luogo. La lettera è stata scritta al giornale online della fondazione, una tra le tante proposte educative dell’opera.
A tutti quanti prima poi capita di iniziare un percorso e poi doverlo finire. Ecco, io lo sto finendo: questi sono gli ultimi giorni che trascorro in Casa Iris. Sono triste, amareggiata, anche incazzata, perché lascio le persone con cui ho legato, partendo dai medici, dagli ospiti, dagli operatori, educatori… insomma: da tutti quanti! La Fondazione mi ha cambiato la vita; sono cambiata: tante volte volevo fare stupidaggini e pure non le ho fatte, perché c’era sempre qualcuno lì a fermarmi, qualcuno lì a parlarmi, qualcuno lì a dirmi “ma che cavolo stai facendo?”. A volte le ho fatte, mi sono tagliata, mi hanno medicato, mi hanno capito, non mi hanno mai urlato contro. Grazie.
Kikka
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