MALICE AT THE PALACE: LA SERIE CHE RACCONTA UNA CELEBRE RISSA

Malice at the Palace sbarca su Netflix: meglio dire che è già sbarcata (settimana scorsa è stata resa disponibile la prima puntata), è solo l’ultima docuserie che ritrae i dietro le quinte (e non solo) del mondo dello sport, in questo caso il basket. L’anno scorso The Last Dance ha fatto scuola, raccontando le vicende legate al sesto titolo dei Chicago Bulls – di fatto la storia di Michael Jordan con compagni e avversari a fare da contorno, e infatti non tutte le reazioni dei protagonisti sono state positive; ora arriva il documentario incentrato sui fatti che ebbero luogo il 19 novembre 2004, in una partita di regular season NBA che diventò una mattanza.



“Malice” sta per malvagità, anche se di fatto è intraducibile nella nostra lingua (esprime l’intenzione, il desiderio di fare il male); “Palace” è il Palace of Auburn Hill, casa dei Detroit Pistons – oggi demolita – che ospitavano gli Indiana Pacers. Detroit campione in carica, Indiana lanciatissima dopo un mese scarso: le due squadre si sarebbero ritrovate nella semifinale playoff della Eastern Conference (4-2 per i Pistons, poi battuti in finale da San Antonio) ma soprattutto si erano incrociate l’anno prima in una pepatissima finale – di Conference, ça va sans dire – con la vittoria sempre di Detroit per 4-2, tra infinite polemiche. L’antefatto, la miccia, è questa: poi, in campo successe di tutto.



LA SCINTILLA AL PALACE OF AUBURN HILLS

Mancano pochi minuti al termine della partita: Indiana sta sbancando il Palace, risultato 97-82 e abbondantemente in ghiaccio. Siamo a metà novembre, vittoria o sconfitta incidono poco ma l’animosità si può toccare: nel roster dei Pacers ci sono tipetti poco raccomandabili a cominciare da Ron Artest, che già all’epoca (lo si potrà sentire nel documentario) aveva problemi di gestione della rabbia ed era in cura. Lo avremmo poi conosciuto come Metta World Peace, campione con i Lakers, e in Italia per una breve ma intensa apparizione con Cantù; nel 2004 era forse il miglior difensore sull’uomo di tutta la NBA, e un signor attaccante, leader di una squadra che poteva contare anche sul giovane Jermaine O’Neal destinato a diventare una stella (destinato…). Pare che a scatenare la scintilla sia stato Jamaal Tinsley, il playmaker di Indiana: si sarebbe avvicinato ad Artest instillandogli un pensiero sporco e antisportivo. “Adesso puoi fare un fallo dei tuoi”: detto fatto, il futuro Metta – senza alcun motivo, tanto per surriscaldare il clima – frana letteralmente su Ben Wallace con un fallo terminale, di quelli cattivi e gratuiti. Wallace, che non è l’uomo più tranquillo della terra, reagisce: ne deriva una rissa, ma fino a quel momento siamo in un panorama “normale” perché scene così, per quanto brutte, all’epoca passavano sugli schermi abbastanza di frequente.



SI SCATENA IL FINIMONDO

È quello che succede dopo a scatenare il Malice at the Palace, e qui c’entrano incredibilmente gli spettatori assiepati in tribuna: almeno, alcuni di essi. È questo ad aver segnato il confine, il fatto che anche il pubblico pagante, soprattutto il pubblico pagante, sia stato protagonista dei fatti. Succede allora che Artest, per prendere fiato ed evitare sciocchezze irreparabili, si sdraia sul tavolo dei segnapunti con il chiaro intento di darsi una calmata: va a finire esattamente all’opposto, perché malauguratamente gli arriva addosso un bicchiere di plastica. È il drappo rosso in faccia al toro: Artest non ci vede più, si alza e come una furia scala le tribune alla ricerca del colpevole. Con lui si fiondano il già citato O’Neal e Stephen Jackson (giocatore meraviglioso) per la giustizia personale: prendono il tizio sbagliato, parte una gragnuola di pugni e schiaffi. Un pandemonio, che prosegue anche negli spogliatoi perché un addetto dei Pistons viene brutalmente aggredito durante un alterco. David Stern, all’epoca Commissioner della NBA, usa il pugno d’acciaio: con decisione unanime (cioè, sua esclusiva) squalifica Artest per tutta la stagione (playoff compresi), 30 partite a Jackson, 15 a O’Neal, 6 a Ben Wallace. In più, un anno dopo, un anno di libertà vigilata e 60 ore di servizio alla comunità per i tre Pacers.

DOPO IL MALICE AT THE PALACE

Il Malice at the Palace, ovviamente, viene ricordato ancora oggi come uno degli avvenimenti più nudi e crudi nella storia dello sport. Cosa è successo dopo? Di fatto, nulla: come detto Detroit è tornata in finale e quel gruppo ha avuto altri giri di giostra (Ben Wallace andò poi a Chicago, dove non riuscì a ripetersi), Ron Artest passò per altre franchigie fino a risultare decisivo nel titolo 2010 dei Los Angeles Lakers (segnò una tripla fondamentale in una gara-7 da 20 punti), Jackson restò un giocatore di grande livello. Forse, a pagare maggiormente lo scotto della rissa fu Jermaine O’Neal, che ebbe un’altra grande stagione ma da allora andò repentinamente in declino, non confermando un 2004-2005 in cui aveva viaggiato a 24,3 punti, 8,8 rimbalzi e 2,0 stoppate. Sicuramente, come già accaduto un decennio prima nel tennis quando Monica Seles venne accoltellata da un pazzo, le misure di sicurezza nei palazzetti della NBA furono inasprite (e lo vediamo ancora oggi); sportivamente parlando, se i singoli hanno trovato il modo di riscattarsi – ed è giusto così, bisogna sempre avere una seconda occasione – ne ebbero l’occasione anche gli Indiana Pacers: la squadra non venne smantellata e rimase quella anche per l’anno seguente, fermandosi però al primo turno. Certo: la grande occasione la ebbero proprio nella stagione 2004-2005, ma il Malice at the Palace impedì loro di difendere il primo posto nella Eastern Conference. Forse, sarebbe andata diversamente…