Forse è troppo presto per pensare di delineare un movimento che possa chiamarsi new new horror, ma se in futuro esisterà pare chiaro che James Wan sia una delle figure potenzialmente più interessanti, fosse solo per aver dato il via a una saga capitale dell’immaginario horror recente come Saw o aver riconfigurato l’horror commerciale con film come The Conjuring. Dei maestri del new horror, come John Carpenter o Wes Craven, non ha forse la follia compensata dall’abilità e affidabilità professionale, ma un film come Malignant forse si avvicina a quei nomi e alle loro deviazioni più sapide.
La protagonista è una donna che, dopo la morte del marito violento, comincia a essere trascinata al centro di una serie di omicidi sempre più atroci, di cui sembra vedere e sentire ogni cosa. Chi è l’assassino con cui sembra avere questo contatto psichico e perché ha scelto proprio lei?
Akela Cooper, assieme a Wan e Ingrid Bisu, compie uno strana operazione di riscrittura e reinvenzione dello slasher, senza perdersi nei cascami nostalgici di moltissimo horror da Netflix, ma mantenendone evidente lo spirito produttivo più avventuroso e il modo di usare il cinema per spaventare senza ricorrere alle tecniche più abusato, cercando la sorpresa e l’azione prima dello shock.
In questo senso, Malignant ricorda da vicino certe trovate di Craven, come la componente extra-corporea (che sembra provenire dal sottovalutato Sotto shock) o extra-dimensionale, con Gabriel – l’assassino del film – che fa da portale tra la dimensione del sogno e la realtà come un figlio di Freddy Krueger, da cui anche l’ambizione evidente di farne nascere una nuova saga più a “basso costo” e meno incardinata nei parametri dell’horror mainstream, più vicina a uno spirito più rozzo e sfacciato.
In questo senso, nell’ottica di un parziale allontanamento dal calderone del film pauroso da multisale, vanno lette la cesura action del finale e il colpo di scena che scarta tutti i giochini mentali e meta-narrativi di tendenza e punta su immagini materiche, fisiche, corporee e grevi.
Malignant mette l’altissima perizia tecnica del suo regista – e dei suoi collaboratori come Michael Burgess alla fotografia o Kirk Morri al montaggio – al servizio di un materiale narrativo forse fragili, sicuramente composto senza troppe rifiniture, ma forse per questo ancora più efficace e divertente. Certo, gli incassi disastrosi sembrano allontanare ogni ipotesi di prosecuzione della saga di Gabriel (e delle sue linee narrative concepita apposta per una serializzazione), ma come spettatori ci accontentiamo di un bell’horror violento, veloce, a suo modo impeccabile.
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