A quarant’anni dalla sua uscita negli Stati Uniti, dove la première fu a New York il 18 aprile 1979 e la distribuzione in sala dal 25 aprile, Manhattan di Woody Allen ancora colpisce per il felice connubio tra dialoghi folgoranti, degni di un serrato tv-show come nel miglior Allen del periodo comico, e la maturità formale e strutturale di un racconto che non si limita alla parodia o all’aneddoto, ma che ha ormai assunto la forza di un sottogenere codificato: la neurotic comedy alla Woody Allen.



Presentata fuori concorso al festival di Cannes nel maggio dello stesso anno, questa ottava regia di Allen – in dieci anni – ebbe anche un notevole riscontro di critica, tanto che il The Village Voice definì Manhattan “l’unico vero grande film americano degli anni ’70”. Giudizio forse eccessivo, che esprime tuttavia sincera e meritata ammirazione per uno scrittore di gag che ha saputo diventare autore di cinema a tutto tondo, e che con quest’opera esprime, a sua volta, incondizionato amore sia per la settima arte che per la sua città. Manhattan nasce infatti come un affettuoso sguardo su New York City, carico di decadente romanticismo e impresso nel corposo bianco e nero del cinema classico.



Come accaduto spesso, anche per questo film di Allen è nata prima un’idea formale-visiva piuttosto che l’intenzione di narrare una specifica storia. Ricorda infatti il regista di avere discusso molto con il direttore della fotografia Gordon Willis, durante le riprese del precedente Interiors (1978), circa un film da girare in bianco e nero e in formato panoramico, che comprendesse anche visioni dei luoghi simbolo di New York, come a rendere la Grande Mela una sorta di pulsante personaggio aggiunto. Così, ritraendo con modalità classiche e struggenti la propria città, la quale “ancora esisteva in bianco e nero e che pulsava sulle melodie di George Gershwin”, Woody Allen si trova a raccontare delle persone che vi ha conosciuto, trasfigurate in personaggi di una vicenda di amori incerti, tradimenti, ripensamenti e nevrosi di varia natura, tutta immersa in una sorta di luogo dell’anima e della memoria.



Sappiamo oggi, dopo le recenti dichiarazioni della modella Stacey Nelkin, allora diciassettenne e reduce da una piccola parte in Io e Annie (1977), che il soggetto di Manhattan è più autobiografico di quanto si supponesse, circostanza che comunque non sminuisce la portata drammaturgica del film. Come tutti i grandi autori (la lista sarebbe lunga, ne citiamo solo due: Fellini e Bergman), anche Allen sa traslare in arte cinematografica le proprie vicende private, derivando l’universale dal particolare. Vicende comunque mai direttamente riconoscibili e mai immesse nel testo a mo’ di aneddoto, ma che principalmente costituiscono motivi di spunto per qualcosa di più strutturato e profondo. Numerose, infatti, sono le scene di Manhattan girate nei luoghi reali normalmente frequentati dal regista e dai suoi amici. Addirittura iconica è diventata la silhouette dei due protagonisti (Allen e Diane Keaton) di spalle sulla panchina sotto il ponte della 59th Street, cosa che un poco sorprende, trattandosi di un film di Woody Allen.

Ma il regista newyorchese, a questo punto della carriera, ha già dimostrato di avere fatto un notevole salto di qualità nella messa in scena dei suoi film. In particolare Manhattan si segnala per un’inedita attenzione alla composizione degli spazi, alla distribuzione della luce e alla disposizione dei personaggi nell’inquadratura. Il tutto anche, anzi soprattutto, in funzione espressivo-narrativa: diverse sono le scene nelle quali la giovane Tracy (Mariel Hemingway), sincera nel suo affetto verso Isaac (Allen), è ritratta – lei sola – in piena luce, mentre gli altri personaggi si aggirano nella penombra o rimangono seminascosti dalle scenografie. Oppure le scene dove i due protagonisti, entrambi ambigui di sentimenti e incerti nelle reciproche intenzioni, si trovano a discutete concetti alti mentre sono ritratti in penombra come ladri; oppure, inquadrati in controluce, si stagliano come due silhouette nere senza spessore su un fondo luminoso.

Oltre, come detto, a essere il film con il quale Allen prende definitivamente le distanze dalla sintassi da sketch televisivo che ha, in parte, contraddistinto i suoi esordi, Manhattan segna anche la fine della collaborazione artistica con Diane Keaton. A questo punto della vita personale e artistica di Allen, anche la relazione sentimentale con la Keaton, che ha contribuito alla scoppiettante riuscita di quasi tutti i film precedenti (ricordiamo soprattutto Provaci Ancora, Sam, 1972; Amore e Guerra, 1975; Io e Annie, 1977), è al termine. Del senso di smobilitazione che ne deriva Manhattan, paradossalmente, se ne giova molto, soprattutto in termini di credibilità del personaggio instabile nevrotico interpretato dalla Keaton.

Ma anche il resto del cast ha la fisicità perfetta per i ruoli assegnati. In esso spicca la diciassettenne Mariel Hemingway – nipote del celebre scrittore – che impersona la giovane amante di Isaac-Allen e svolge, nel finale sospeso, aperto su un incerto ma promettente futuro, anche una sorta di ruolo catartico. Anche in questo Manhattan non è più un esperimento, una rivisitazione parodistica, un collage di sketch e battute fulminanti, ma il frutto maturo e consapevole di un regista che ormai ha stabilmente trovato la sua cifra espressiva, e che con questo film ha probabilmente realizzato il capolavoro formale della sua carriera.