Luigi Manconi, ex senatore del Pd e già presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, è uno dei più profondi conoscitori del sistema carcerario. I fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere lo hanno spinto ad utilizzare parole nette nei confronti dei problemi che affliggono il sistema carcerario italiano. Intervistato da HuffPost, Manconi ha spiegato: “Come è potuto accadere che oltre 50 persone abbiano commesso misfatti del genere? Io non ritengo che tutti gli agenti siano dei criminali ma non credo neanche alla retorica delle mele marce. Il problema risiede nel sistema carcerario, nella sua natura profonda e nel suo complessivo funzionamento: è un fatto culturale. C’è poi un tema che riguarda la formazione degli agenti, il corporativismo cronico dei sindacati di categoria“. Manconi distingue “tre livelli di violenza ai danni dei detenuti. Il primo è l’esplosione improvvisa della tensione all’interno della relazione sempre problematica tra carceriere e carcerato. Il secondo è qcuello relativo all’azione delle cosiddette “squadrette” di poliziotti che esercitano una forma di disciplina surrogatoria e illegale. Si tratta di una funzione punitiva, del tutto illecita, ai danni di chi, agli occhi degli agenti, avrebbe compromesso l’ordine interno del carcere. C’è poi un terzo livello, ed è quello che possiamo vedere nei fatti di Santa Maria Capua Vetere: in questo caso abbiamo una spedizione punitiva, un’azione preparata, premeditata, che ricorda molto i fatti che avvennero esattamente vent’anni prima, nel 2000, nel carcere di San Sebastiano, a Sassari, dove fu applicata la stessa tecnica brutale di rappresaglia. Ma se guardiamo al presente mi pare impressionante il fatto che in nove mesi nove procure italiane hanno aperto indagini su condotte violente della polizia penitenziaria ai danni dei detenuti“.



MANCONI: “OMERTA’ NELLA POLIZIA PENITENZIARIA”

Secondo Luigi Manconi, il motivo per cui fatti come quelli verificati a Santa Maria Capua Vetere faticano a venire a galla è riconducibile a quella “omertà nelle corporazioni” che viene “considerata una virtù. Ancora di più nelle corporazioni di tipo militare, come è all’origine la Polizia penitenziaria. C’è un livello di integrazione e solidarietà interna elevatissimo. Ragion per cui, se nessuno parla, diventa molto difficile indagare. Questo è il primo aspetto, ma c’è un’altra componente. Il primo compito della polizia penitenziaria è quello di custodire altri esseri umani. Questo implica, di per sé, l’esercizio legittimo della forza. Perché solo con la coercizione si ottiene la privazione della libertà, che altrimenti l’individuo rifiuterebbe in tutti modi. Privare della libertà e controllare i movimenti dei reclusi, sia ben chiaro, è legale. Il problema è che tutto ciò prevale rispetto all’altro compito fondamentale, costituito dalla funzione rieducativa della pena, indicata in Costituzione, fino ad annullare quest’ultima. La rieducazione del condannato viene in genere sacrificata in nome della sicurezza: ovvero della custodia coatta dei corpi dei detenuti. È così che si spiegano episodi come quello di S. M. Capua Vetere: alcuni agenti si trasformano in aguzzini perché è la struttura del carcere, ispirata alla segregazione e alla mortificazione del condannato, che induce a questo. Perché, nei fatti, l’esito della detenzione è quello di de-responsabilizzare il detenuto, privarlo dell’indipendenza, della sua autonomia e controllarlo in tutti i suoi atti“.



MANCONI: “PROBLEMA CULTURALE, CARCERE DOVREBBE ESSERE EXTREMA RATIO”

Si giunge dunque alla questione delle questioni: il problema culturale. Manconi spiega: “a cultura prevalente vede nel detenuto un individuo da rendere inoffensivo, da neutralizzare. Ed ecco che allora, in una visione del genere, il carcere diventa un luogo dove l’uso della forza, pur legittimo, rischia costantemente di farsi abuso e violenza illegale. E sfociare in trattamenti inumani e degradanti“. Ma come si può intervenire? “Rendendo il carcere una extrema ratio. (…) Guardi, c’è un pregiudizio culturale terrificante, espressione di una voglia di vendetta molto diffusa. Quella di rivalersi sul corpo del reo delle offese subite, vere o presunte, è una tentazione ricorrente. Come si supera l’ideologia della cella chiusa? Con tutti i mezzi che anche l’attuale codice ci offre, partendo da alcuni dati. Secondo il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, appena il 10% dei detenuti è socialmente pericoloso. Ecco, bisognerebbe lavorare affinché il carcere sia riservato solo a questi. Per tutti gli altri bisognerebbe prevedere sanzioni diverse: da quelle pecuniarie ai lavori socialmente utili, dalle misure interdittive alle azioni risarcitorie verso la vittima e verso la società. Non solo. È accertato che il 69% di chi sconta l’intera pena in carcere, una volta tornato in libertà, reitera il reato. Tra chi sconta pene alternative questa percentuale si abbassa fino al 20%, e, nel caso di detenzione domiciliare, può scendere al 2%“.



Per Manconi, a leggere queste percentuali dovrebbe essere anche chi tende a creare un reato nuovo ogni volta che c’è un allarme sociale: “Certamente il panpenalismo è uno dei fattori di sovraffollamento delle carceri. Nei penitenziari, ad esempio, troviamo una quota elevatissima di tossicodipendenti e piccoli spacciatori e un numero basso di narcotrafficanti. Allo stesso modo, ci sono tantissimi stranieri, detenuti solo perché privi di documenti regolari. È tipico dell’Italia trasformare ogni allarme sociale, ogni conflitto imprevisto, ogni crisi culturale in uno stato di emergenza che richiede nuove fattispecie penali o l’innalzamento delle pene previste. Questa è una gravissima torsione che si fa al diritto“.