La tocca piano, come dicono i “ggiovani” di oggi, Pierpaolo Capovilla, già leader degli One Dimensional Man, del Teatro degli Orrori e dei più recenti Cattivi Maestri. Figura di spicco del cosiddetto indie rock alternativo, i duri e puri, così si è espresso sulla sua pagina FB a proposito del recente concerto dei Måneskin al Circo Massimo: “Che pena che fa questo gruppo di giovani stupidi. Conformisti, intrappolati nel successo, purissima plastica, perfetti rappresentanti di una generazione di imbecilli, incapaci persino di comprendere le circostanze storiche che hanno portato alla guerra in Ucraina”. Non solo. Ha proseguito: “Tanto, se sei rock, puoi essere superficiale, accontentarti degli slogan, e sopratutto non dare fastidio al Dipartimento di Stato USA. Poverini, non hanno capito niente del mondo, ma tanto, siamo rock, giusto? basta usare la parola “fuck” e tutto il resto passa in secondo piano. L’ignoranza, la falsa coscienza, l’ideologia americana, la spazzatura al posto del cibo”.



Appare ovvio che Capovilla sia furioso non per quanto riguarda l’aspetto musicale, il disprezzo di tanti suoi coetanei per questi “ragazzetti” che da più di un anno trionfano in giro per il mondo e hanno radunato 70mila persone al concerto di Roma. No, quello che fa infuriare il musicista è che Damiano, cantante della band, abbia rilasciato ancora una volta come già fatto, il suo “fuck Putin”.



Ora, cinquant’anni di PCI (nel senso di Partito comunista italiano, quello che nel 1956 applaudiva la repressione ungherese in un bagno di sangue, che nel 68 approvava quella, fortunatamente, senza molte vittime, di Praga e che solo a fine anni 70 aveva un leader che trovava il coraggio di dire di sentirsi più al sicuro sotto all’ombrello della Nato che sotto a quello di Mosca) hanno lasciato segni e monoliti ancora largamente diffusi in tanti italiani. Capovilla, come vediamo tutti i giorni sui social, fa parte di quelli il cui anti americanismo è tale da fargli preferire quasi quasi Putin e il suo genocidio di massa in Ucraina. E’ triste, ma è così. Ci vorranno generazioni prima che passi.



Intanto i Måneskin vanno per la loro strada, nonostante abbondino gli “hater” musicali, quelli per cui la band romana musicalmente non vale niente. Per dirla come Steven Wilson, leader del gruppo inglese Porcupine Tree, in una sua intervista che ha suscitato scalpore, “Per chi è cresciuto sentendo i Led Zeppelin, i Pink Floyd o i Black Sabbath, ascoltare gruppi come i Måneskin o i Greta Van Fleet e prenderli seriamente è dura perché sono una copia scadente di quel che erano gli altri”.

E si apre un altro fronte, generazionale, quello dei “boomer” contro “ggiovani”. I boomer che devono farci sapere che la musica bella la ascoltavano solo loro e nel solo momento in cui aveva senso ascoltarla. I giovincelli che rispediscono al mittente qualsiasi critica al suono di “boomer”, come se la giovinezza fosse il lasciapassare universale in qualsiasi disputa.

I primi devono farsi una ragione, i secondi una cultura. Ma, diciamolo, la musica definisce il tuo posto nel mondo quando sei adolescente; a quell’età è normale disprezzare la musica che non ti piace. Sei disposto a fare le barricate e a dividere il mondo in noi e loro. È giusto, ed è salvifico, perché sentirsi diversi è una questione di sopravvivenza, a diciassette anni. Perché i Måneskin non sono per niente male, suonano bene (soprattutto il batterista) e sanno tenere il palcoscenico. Ma per favore, non chiamate il loro pubblico “generazione Måneskin” come hanno fatto tante testate giornalistiche. Al Circo Massimo c’era solo voglia di divertirsi.

Di tutte queste sceneggiate, alla fine, quelli che fanno più pena sono proprio i giornalisti sessantenni che devono sempre salire sul carro dei vincitori per allungarsi la carriera e garantirsi ospitate alla tv e alla radio.

Alla fine, è solo rock’n’roll e piace a chi piace.