Banche piene zeppe di denaro (al punto che alla fine del secolo scorso era la provincia d’Italia col maggior numero di sportelli bancari in rapporto agli abitanti), piccole e medie industrie tessili e meccaniche che producevano a tambur battente, l’immagine consolidata di un territorio verde, pulito, cosparso di parchi e ville borghesi, sostanzialmente integro fra laghi e rilievi prealpini a due passi dalla caotica metropoli. E il Canton Ticino, oasi svizzera di segretezza fiscale in lingua italiana, troppo vicino per non offrire più di una tentazione.
Ma trent’anni fa, nel gennaio 1991, Varese si scoprì corrotta e spalancò le porte a Tangentopoli un anno prima che la bufera giudiziaria investisse Milano.
“Guarda amico mio che per restare in questo posto devi produrre altrimenti non ti teniamo” era stata la lapidaria affermazione che il sindaco democristiano della Città Giardino aveva gettato in faccia poco tempo prima al suo giovane assessore fresco di nomina in giunta. E l’assessore si adeguò. Così, almeno, risulta dalle pagine del processo che in un decennio di indagini portò sul banco degli imputati 79 uomini d’industria ed esponenti politici di tutti i partiti (una manciata dei quali coinvolti senza autentica colpa e, dopo mesi di galera, rilasciati senza un cenno di scuse), individuò 207 capi d’imputazione, in prevalenza concussione e corruzione per appalti pubblici nel capoluogo e in provincia per 62 miliardi di vecchie lire, richieste di condanne per 360 anni poi scese a 250. Un’intera classe politica spazzata via mentre l’attenzione dei mass media si spostava sul palcoscenico ben più importante della “Milano da bere” (l’ordine di cattura del socialista Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, è del 17 febbraio 1992, data di inizio della Tangentopoli milanese).
Varese veniva consegnata (caso unico nell’intera vicenda nazionale) ad una giunta comunale di gente onesta d’ogni colore politico, imbarcata per senso civico e morale su una navicella che, priva di ancore partitiche, naufragò dopo appena 13 giorni di navigazione – era la Giunta di Angelo Monti – facendo entrare in porto il transatlantico della Lega Nord di Umberto Bossi.
Ecco, se la metropoli lombarda fu la bomba, la cittadina di provincia fu la miccia, ma a tre decenni di distanza è lecito chiedersi se tutto quel baccano sia servito a qualcosa. Già dieci anni dopo i primi fatti varesini del gennaio 1991 (irruzione dei carabinieri in una casa di riposo alle porte del capoluogo, proprio come a Milano: gli anziani, spesso non autosufficienti, prime vittime ignare delle ruberie consortili, per di più trovati legati ai letti e abbandonati a loro stessi), la requisitoria del pubblico ministero venne pronunciata in un’aula semideserta, “evento sintomatico di un inquietante andazzo di disattenzione generale” scrisse lo storico Franco Giannatoni, mentre “la città restò ai margini, sconcertata, umiliata, rassegnata” ha ribadito di recente Gianni Spartà, giornalista che per il quotidiano locale La Prealpina seguì la vicenda politico-giudiziaria dall’inizio alla fine.
Sulla prima repubblica calava il sipario e Tangentopoli propriamente detta chiudeva lì, senza, in realtà, chiudere mai del tutto, come dimostrano i mille e mille fatti e misfatti degli anni a seguire, sino ai giorni nostri. Se “la corruzione è l’arte della mediocrità”, come già nel 1834 scrisse Honoré de Balzac nel suo Papà Goriot, abbiamo poche ragioni per stare allegri.
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