Come ha ben articolato Rony Hamaui in un’intervista al Sussidiario alla vigilia del 7 ottobre, la guerra in Medio Oriente – l’ennesima guerreggiata – è un fatto storico-politico, che nella stretta attualità impegna in modo cruciale le relazioni fra Israele e gli Usa, a loro volta in una fase cruciale di politica interna per il voto presidenziale. È in questo quadro che – inesorabilmente – ha ripreso vigore l’antisemitismo: una forma millenaria e simbolica di “guerra culturale” a sfondo etnico-religioso, che ha avuto nell’Olocausto un vertice ritenuto assoluto nella storia dell’umanità.



È un caso storico-politico minuscolo ma non irrilevante anche quello posto dalla manifestazione indetta a Roma in occasione del 7 ottobre da un gruppo di associazioni filopalestinesi – espressione anzitutto della comunità araba in Italia – e vietata direttamente dal ministro degli Interni. Le reazioni politico-mediatiche – forse inevitabilmente – sono andate filtrando all’ingrosso punti di vista sulla crisi mediorientale, riflessioni su antisemitismo e questione ebraico-palestinesi e infine spunti direttamente innestati nella situazione politica interna al Paese.



Vi sono pochi dubbi che la decisione del governo italiano abbia guardato anzitutto all’ordine pubblico. Il rischio di un sabato di fuoco in stile G8 di Genova – su uno sfondo assai più infiammato – non è parso affatto remoto. E gli ultimi attentati alle ambasciate israeliane in Svezia e Danimarca hanno indicato come reale il pericolo di attacchi terroristici analoghi a Roma. Qui c’è la sede dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (granitica negli ultimi dodici mesi nel difendere le ragioni di Israele dopo l’attacco di Hamas) e vive una comunità ebraica che è già stata vittima di molta violenza: dallo sgombero nazista del ghetto nell’ottobre del 1943 fino all’omicidio di un bimbo di due anni, nel 1982 davanti al Tempio durante la Festa delle Capanne, da parte di terroristi di matrice palestinese.



Allo stesso livello, la scelta di chiudere le piazze è sembrata coerente con la preoccupazione di contestazioni violente contro le grandi sedi istituzionali del Paese: Quirinale, Palazzo Chigi e ministeri, Montecitorio e Palazzo Madama (qui “risiede” anche la senatrice a vita Liliana Segre, reduce e testimone della Shoah, ultimamente oggetto di attacchi personali in escalation).

Nel passaggio è sembrato nondimeno emergere uno specifico profilo di politica nazionale. Il governo Meloni sta certamente rimarcando la propria non neutralità geopolitica sulla crisi di Gaza ora estesa al Libano. Pur pubblicamente contraria alle pesanti ripercussioni umanitarie della reazione di Israele all’attacco di Hamas e favorevole a un cessate il fuoco, l’Italia resta allineata principalmente con gli Usa: come sempre in passato, con l’unica ma significativa eccezione dell’incidente di Sigonella nel 1985. La premier è stata fra i primi leader europei a visitare Gerusalemme un anno fa, confermando il sostegno al diritto alla sicurezza di Israele nella regione (per questo Roma sta fra l’altro partecipando alla missione navale occidentale in Mar Rosso contro la minaccia proveniente dagli Houti filo-iraniani). La posizione ha avuto un versante interno visibile nell’atteggiamento inizialmente fermo del governo verso le proteste di piazza, soprattutto sul fronte studentesco (anche negli Stati Uniti le università occupate dalle tendopoli sono state alla fine tutte sgomberate, con l’appoggio men che tacito dell’amministrazione democratica).

In Italia è intervenuto d’altronde il richiamo energico del Quirinale – dopo gli incidenti di Pisa – a imporre l’apertura “democratica” delle piazze a ogni forma di contestazione di Israele, in nome della prevalenza assoluta delle libertà costituzionali (pensiero, parola, manifestazione non armata). Lo stop al corteo di oggi (confermato senza esitazioni dai magistrati amministrativi, cui gli organizzatori erano ricorsi) sembra ora sospendere la “dottrina Mattarella” e interrogare in modo specifico la sinistra italiana: che negli ultimi sei mesi ha confermato la sua vicinanza storica ai palestinesi e le posizioni strutturalmente critiche per le politiche di Israele nei Territori (l’ultima manifestazione nel centro di Milano è stata compattamente sostenuta da Pd, M5s Avs e Cgil). “Caso nel caso” è quello della leader Pd Elly Schlein, figlia di un politologo israelita americano e da sempre in ambiguo silenzio sulla questione palestinese e sullo stato della democrazia in Israele dopo 14 anni di “regno” di Netanyahu.

Sullo sfondo di una crisi geopolitica ogni giorno più grave sarebbe però riduttivo e spicciolo parlare di colpo vibrato sullo scacchiere interno da un destra-centro sempre presunto amante dell’ordine e non delle libertà. È d’altronde un fatto che un’opposizione che da anni rivendica la propria superiorità etico-politica nei confronti del centrodestra – dipinto spesso come cugino di quello nazionalista israeliano – finisce inevitabilmente per ritrovarsi al centro di nuovi sospetti di antisemitismo.

Emblematico, in termini paradossali, il caso della senatrice Segre. Per anni è stata adottata dalla sinistra (soprattutto giovanile, ad es. il movimento delle sardine) come leader morale contro “le destre”. Oggi viene invece contestata come “sionista” da chi – a sinistra – sembra dimenticare quanto la sua testimonianza dell’odio antisemita sia stata concretamente preziosa per passaggi di stretta attualità politica. È sufficiente ricordare il “ribaltone” di governo del 2019 e la commissione parlamentare “contro l’odio” costituita in corsa dopo due vittorie locali della Lega, anche con il fine di difendere – alla fine di un soffio – il “fortilizio rosso” dell’Emilia-Romagna, lanciando come vice-governatrice la stessa Schlein.

Quella che scuote il “campo democratico” in Italia sul ritorno dell’odio antisemita è comunque la medesima crisi politico-culturale che sta agitando da mesi all’ennesima potenza gli stessi dem americani. Una culture war non facile da decrittare. Sul Sussidiario è stata seguito lo stillicidio di licenziamenti di capi di prestigiose università liberal con l’accusa di antisemitismo per non aver vietato manifestazioni e attendamenti filo-palestinesi, in nome della libertà di parola. Dopo il 7 ottobre un’antropologia culturale storica negli Usa e non solo – l’eccellenza intellettuale degli israeliti liberal nelle accademie e sui media – è così entrata in una crisi drammatica: spesso per mano dei grandi donatori israeliti, finora sostenitori di università divenute tempio di un politically correct iper-inclusivo, iper-liberatario, anti-razzista e anti-violento, globalista e fondamentalmente laico.

Le ragioni dello Stato ebraico oggi – sotto attacco di Hamas e Hezbollah dopo 80 anni di irrisolta questione palestinese – sono state saldate tout court con la Memoria della Shoah, producendo un effetto evidente: chi oggi è contro Israele (fra cui ad esempio anche molti docenti israeliti della Columbia University) passa automaticamente per antisionista e quindi antisemita; e come tale viene non di rado combattuto con armi culturali della stessa efficacia di quelle usate a Gaza o in Libano. È una pressione – quella esercitata da Israele e dalla comunità ebraica americana – che sta influenzando direttamente la campagna per la Casa Bianca. E la dinamica procede in parallelo alla delegittimazione frontale e radicale dell’Onu:  massima istituzione internazionale, costruzione simbolica dello stesso dopoguerra che consentì la nascita dello Stato di Israele. Con i nessi fra crisi geopolitica in Medio Oriente e questione ebraica ha dovuto fare i conti il presidente americano uscente Joe Biden – alla fine non ricandidato – mentre il ricandidato Donald Trump, iper-sionista, non è più certo di avere il supporto dell’amico Netanyahu come nel 2016. È evidente come qualsiasi altro leader sul pianeta cammini oggi su un terreno disseminato di carboni ardenti e mine.

Su tutto questo è probabile che si dovrà riflettere ancora a lungo: anche dopo l’anniversario del 7 ottobre, anche dopo il voto Usa del 5 novembre. Israele sembra riuscito a salvare la propria sicurezza, che sembrava fortemente a rischio dopo il più grave pogrom dalla Shoah in poi, avvenuto sul suolo stesso della Terra del Ritorno. Qualche osservatore ha anzi già iniziato a giudicare lo Stato ebraico e il suo premier come i veri vincitori di una “confrontation globale” iniziata con il Covid venuto dalla Cina e proseguito con le guerre in Ucraina e Medio Oriente.

Se tuttavia Israele sembra mostrare in qualche frangente connotati inediti da nuova “superpotenza” (basti pensare all’incitamento diretto di Netanyahu agli iraniani contro i loro leader), Gerusalemme ha però dovuto brandire la Memoria della Shoah come mai in passato, anche come arma geopolitica. Ed è presto per predire se il contrasto “assoluto” all’antisemitismo ne uscirà appannato: come virtuale “articolo zero” di una “Costituzione globale” che non esiste oppure come “emendamento aggiunto automatico” di tutte le costituzioni esistenti.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI