A sei anni di distanza dall’ottimo L’amore bugiardo – Gone Girl, David Fincher è tornato. Ed è tornato con un capolavoro: il suo Mank – dal 4 dicembre 2020 su Netflix – è probabilmente il miglior film della stagione cinematografica. Il lungometraggio accende i riflettori sulla Hollywood degli anni ’30, rivalutata attraverso gli occhi del graffiante critico e sceneggiatore alcolista Herman J. Mankiewicz (Gary Oldman), mentre si affanna a finire il copione di Quarto potere per Orson Welles (Tom Burke). Lo sceneggiatore è affiancato dalla fedele e schietta collaboratrice Rita (Lily Collins) e può contare sulla vicinanza di un’infermiera (Monika Gossman), sostegno necessario visto che è reduce da un incidente in macchina.
Mank si muove avanti e indietro nel tempo, con continui flashback – esattamente come in Quarto potere – che permettono allo spettatore di conoscere la storia dal suo principio alla fine. Attenzione però: questo non è solo un film sul processo creativo di un film che ha segnato la storia della settima arte, ma molto di più. Fincher fa luce sul contesto attorno a Citizen Kane, sulla realtà di Hollywood, sul potere seduttivo delle immagini filmate (del cinema, in altre parole) e su come un uomo, il nostro protagonista, decide di scrivere un film sulla vita di una persona, un tempo sua cara amica (William Randolph Hearst, interpretato da Charles Dance). In altre parole, è un tuffo profondo nel making of e negli eventi che hanno dato vita al folgorante esordio di Orson Welles, intrecciati su due linee temporali distinte.
Affidandosi alla sceneggiatura del defunto padre Jack, David Fincher è riuscito a evitare le trappole tipiche del biopic. Ed è proprio la scrittura uno dei punti di forza di Mank: i dialoghi sono serrati, tambureggianti, avvicinandosi incredibilmente allo script sensazionale di The Social Network, firmato da un fuoriclasse come Aaron Sorkin. E quasi all’inizio del film il regista, attraverso il suo protagonista, sembra quasi voler lanciare un messaggio allo spettatore: “Non puoi catturare l’intera vita di un uomo in due ore”, riflette Mankiewicz ad alta voce mentre lavora su Quarto potere. Mank è un uomo divertente, un giocatore d’azzardo, un bevitore e una persona estremamente intelligente, anche se poco incline a evitare guai. “Sono un uomo finito, lo sono da anni”, afferma lo sceneggiatore, che viene presentato con pregi e difetti di sorta. Pensiamo alla battaglia persa con l’alcol, ma anche a cosa ha fatto contro il nazismo, arrivando a salvare 100 persone dal regime di Hitler.
Come dicevamo, Mank non è solo il racconto della creazione di Quarto potere. David Fincher ha girato un film sulla vecchia Hollywood, su tutte le sue contraddizioni: il grande fascino ma anche il terribile squallore, le gerarchie e la corruzione, la gloria e l’abisso. Impossibile non leggere la dichiarazione di amore nei confronti di quella realtà glamour e incasinata, o ancora nei confronti dell’atto stesso della creazione, della nascita di un film. Del cinema, in buona sostanza. E c’è anche una severa analisi, senza sconti, sui meccanismi di potere che guidano – ancora oggi – la capitale americana della settima arte.
Non mancano di certo i riflessi sull’America di oggi: la lotta per riconquistare la gente al cinema (in Mank in periodo di Depressione); la campagna elettorale dei repubblicani contro Upton Sinclair, scrittore vicino al popolo che viene rappresentato come una sorta di Bernie Sanders di quei tempi; sempre per quanto riguarda le elezioni per il governatore della California, la campagna di disinformazione e di fake news portata avanti con cinegiornali mirati a screditare il dem a favore del repubblicano Frank Merriam.
E non possono naturalmente mancare i riferimenti a Quarto potere: il bianco e nero squisitamente retrò di Eric Messerschmidt rasenta la perfezione, tanto da rievocare senza forzature il cinema degli anni Trenta. Alcune sequenze ricordano da vicino il lavoro di Orson Welles (la bottiglia che scivola dalla mano al pavimento su tutte), ma anche la recitazione è vecchia scuola, perlopiù in sottrazione. O ancora la colonna sonora, firmata da Trent Reznor e Atticus Ross, tale da ricordare il commento sonoro di Bernard Herrmann.
Mank è un film eccezionale, un capolavoro per chi ne sta scrivendo, ma una tale qualità non sarebbe possibile senza un cast di fuoriclasse: Gary Oldman si conferma come uno dei migliori attori in circolazione ed è destinato a vincere un altro Oscar dopo aver vestito i panni di Churchill ne L’ora più buia. Degne di nota anche le performance di Tom Burke (ottimo nell’interpretare alla perfezione voce e modi di Welles), Amanda Seyfried (la sua migliore interpretazione) e Tuppence Middleton (Sara Mankiewicz, moglie di Herman).
Mank reciterà un ruolo da protagonista agli Oscar, consentendo così a Netflix di mettere le mani sui premi più prestigiosi dell’Academy. Meritatamente. Una conferma del salto di qualità della piattaforma streaming, che recentemente ha lanciato altre due gemme come Sto pensando di finirla qui e Il processo ai Chicago 7.