Il premier Giuseppe Conte e il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, difendono a spada tratta la manovra 2020: coraggiosa, nel segno della crescita, pur avendo risorse limitate. Oltre tutto, al di là della sterilizzazione degli aumenti Iva che avrebbero depresso i consumi, garantirà con il taglio del cuneo fiscale 500 euro in più all’anno in busta paga ai lavoratori dipendenti, eliminerà il superticket, metterà a disposizione delle famiglie una dote aggiuntiva di 600 milioni, di cui circa 200 per gli asili nido gratuiti e 100 milioni in più per i disabili. Ottimismo ed entusiasmi giustificati? Finalmente una manovra pro famiglia e pro natalità? “Cautela” consiglia invece Luigi Campiglio, professore di Politica economica all’Università Cattolica di Milano, perché bisogna stare attenti a molti “dettagli” non proprio incoraggianti.
Perché invita alla cautela?
In linea di principio è una manovra nei titoli a favore della crescita, lo è meno nell’ammontare delle risorse programmate, perché la gran parte della manovra è legata al disinnesco delle clausole di salvaguardia, che assorbono più dei due terzi dei 30 miliardi in gioco. L’intenzione è buona, ma dalle risorse messe in campo non ci possiamo attendere una grande spinta.
Cuneo fiscale, asili nido gratuiti, eliminazione del superticket, istituzione del Fondo assegno unico e servizi: per le famiglie le notizie positive non mancano, non crede?
La manovra induce più alla cautela che a un orizzonte lungo. La cautela è dettata dal fatto che la pressione fiscale aumenterà: nel 2019 è al 41,9% del Pil e nel 2020 subirà un leggero aumento al 42%, e comunque non in diminuzione.
Quindi?
Un po’ di cautela da parte delle famiglie credo che sia plausibile. Il divario dell’Italia rispetto a paesi come la Germania o la Francia per i provvedimenti a favore della famiglia è da molto tempo intorno allo 0,5-1% del Pil, quindi è chiaro che i 200 milioni per gli asili nido vanno accolti con favore, ma bisogna considerare i tempi, perché se diventano operativi quando i bambini sono grandi, forse arrivano un po’ in ritardo. E non è una battuta, è quello che è accaduto finora.
A cosa sta pensando?
Gli esempi sono innumerevoli. Ne cito uno lontano nel tempo, ma emblematico di tutta la politica che ne è seguita negli ultimi 20 anni. Nel 1996 esisteva la Cassa assegni familiari e maternità, che aveva un enorme avanzo, perché quell’anno è stato, in aggiunta, anche l’annus horribilis della natalità in Italia, con una media di 1,16 figli per donna, il minimo assoluto in termini relativi, ma oggi ormai lo è in termini strutturali. In quel momento c’era la possibilità di immaginare una quantità ampia di provvedimenti robusti a favore della famiglia. L’avanzo venne invece azzerato e destinato a ripianare i conti di bilancio dell’Inps. Anche quando c’erano le risorse non è stato fatto nulla. Il dato centrale che ne è seguito è che in modo rapsodico un governo sì e un governo no ha introdotto qualcosa per la famiglia, in sostanza bonus a scadenza. Quasi una beffa: gli aumenti delle tasse non finiscono mai – noi ancora oggi abbiamo pagato accise sulla benzina per il finanziamento della guerra in Etiopia -, ma le agevolazioni su diversi aspetti della vita familiare scadono sempre. Speriamo che prima o poi ci sia la volontà politica di varare provvedimenti che abbiano una stabilità nel tempo che vada al di là dei 5 anni.
Intanto il governo ha annunciato l’istituzione del Fondo assegno unico e servizi per la famiglia, che dovrebbe contare su una dotazione crescente fino ai 2,5 miliardi entro il 2022. Che ne pensa?
Come verrà finanziato? I 2,5 miliardi possono essere un punto di partenza di grande interesse se si raccolgono risorse fresche, e non una partita di giro di altre risorse esistenti con cui lo Stato sociale interviene a sostegno della famiglia in modo diretto o indiretto. Anche qui suggerisco cautela, perché se la pressione fiscale torna a crescere, ciò che conta è il reddito netto delle famiglie in moneta e in natura. Se metto risorse con una mano e le tolgo con un’altra, l’effetto è quanto meno imprevedibile. E mi riferisco alla filosofia di fondo di questa manovra.
Qual è, secondo lei?
Fondamentalmente è il primo passo verso il rientro definitivo nelle regole fiscali che i differenti Parlamenti negli anni recenti hanno votato a larga maggioranza. In buona sostanza, nel 2019 si prevede un rapporto debito/Pil pari al 135,7%, sulla base dei nuovi dati Istat e Banca d’Italia, e sulla base del Documento programmatico di bilancio in diminuzione al 135,2% nel 2020, al 133,4% nel 2021 e al 131,4% nel 2022. Nell’aggiornamento di settembre al Def (NaDef del precedente governo) vi è un esercizio particolarmente elaborato su sentieri e tempi di rientro del rapporto debito/Pil, a legislazione corrente o con scenario ottimistico o pessimistico, da qui al 2030.
E cosa ne ricava da queste previsioni?
Il messaggio implicito della NaDef è: stiamo lavorando per un rientro del rapporto debito/Pil che – nello scenario più ottimistico – da oggi al 2030 dovrebbe tornare sotto quota 100, ai livelli cioè del 2007. In un scenario di mercato pessimistico rimarrebbe invece intorno al 120%.
Non le sembra un obiettivo un po’ troppo ambizioso, se non velleitario?
Il punto è un altro. Negli ultimi anni è vero che l’Italia è cresciuta un po’ più dell’1%, ma è anche vero che tutto è avvenuto in una congiuntura mondiale molto favorevole, in cui il nostro paese era sempre, purtroppo, fanalino di coda nei tassi di crescita. Adesso il quadro globale è diventato più incerto e questo rientro decennale significa altri dieci anni, non diciamo di austerity, parola che fa paura, ma di parsimonia. Una parsimonia – ecco il punto vero – anche per chi la sta usando suo malgrado da più tempo, cioè i ceti più deboli. Occorre perciò un intervento più robusto e meno controverso: il Fondo europeo di stabilità finanziaria potrebbe essere il nuovo soggetto da attivare per un cambio di rotta.
Veniamo alle clausole di salvaguardia, la misura più ingombrante della manovra. Che idea si è fatto della loro sterilizzazione?
Introdotte come fosse un’ ipoteca sulla casa, per le manovre del passato, il mancato aumento dell’Iva comporta un minor gettito tributario e la necessità di aumentare le tasse o ridurre la spesa. A legislazione vigente e in assenza di una ripresa della crescita, lo spazio di manovra che esiste per rilanciare o irrobustire l’economia del paese o delle famiglie si riduce di molto. Il disinnesco delle clausole contabilmente figurano come entrate mancate e se ci sono meno entrate da una parte, bisogna trovarle da un’altra parte.
La lotta all’evasione, per esempio?
Mettere in bilancio 7 miliardi dal contrasto all’evasione utilizzando solo lotta al contante e fatturazione elettronica è, con tutto il rispetto, eccessivo.
La manovra è ricca di micro-bonus e di micro-tasse. Che effetto combinato è lecito attendersi da questi incroci, come sulla casa, dove convivono bonus facciata accanto ad aumenti delle imposte ipocatastali e della cedolare secca?
Le attività reali difficilmente sfuggono all’imposizione fiscale, in particolare la casa, che è la vera ricchezza degli italiani, è candidata a subire un effetto ingiusto, e cioè che il saldo netto tra micro-bonus e micro-tasse sia casuale: ci sarà chi guadagna di più e chi invece paga di più. Ma il punto decisivo – lo ripeto – è che complessivamente la pressione fiscale potrebbe aumentare.
In estrema sintesi, che cosa si può dire di questa manovra?
Di spazio per la crescita ce n’è poco, non perché manchino le buone intenzioni, ma perché mancano le risorse. E se far quadrare i conti diventa difficile, è molto probabile che verranno toccate altre voci di bilancio, come il sistema di deduzioni e detrazioni. Ma anche qui occorre attenzione: intervenire, azzerandole progressivamente, sui redditi più alti rischia di diventare un boomerang, perché si prefigura un gettito che non ci sarà – chi ha alti redditi ha infatti anche un’assicurazione privata – e di conseguenza si potrebbero di nuovo ridurre le spese sulla sanità per chi ne ha bisogno.
(Marco Biscella)