I sindacati mugugnano per la metodica e i contenuti del disegno di Legge di bilancio, il cui testo (al momento in cui viene redatta questa nota) è ancora in fase di limatura. Non hanno proclamato lo sciopero generale, ma solo una mobilitazione, anche perché con piccole concessioni in materia di richieste sulle pensioni e sugli ammortizzatori sociali il Governo li ha spiazzati. Uno sciopero generale sarebbe stato difficilmente comprensibile all’opinione pubblica e ai loro stessi iscritti. Avevano lanciato la proposta di “un patto per il lavoro”, ribadita anche nella manifestazione del 23 ottobre a piazza San Giovanni a Roma.



Non contavano su un rilancio della “programmazione concertata” simile al “patto di San Tommaso” concluso nel 1993, ai tempi del Governo Ciampi, nonostante lo stesso Segretario del Partito democratico (uno degli azionisti di rilievo del Governo) Enrico Letta vi avesse fatto più volte riferimento. Sanno che, a tempi dell’integrazione economica internazionale e dell’economia dell’incertezza, l’unica programmazione pluriennale fattibile è quella del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) già negoziato con l’Unione europea. Speravano, però, in qualcosa di più di un incontro con il Presidente del Consiglio che, ascoltate le loro proposte, le ha in gran misura archiviate.



A mio avviso, hanno sbagliato il cavallo su cui hanno puntato per avere più voce in capitolo di quanto ne abbiano effettivamente avuta. Si sono inseriti nel dibattito sulle pensioni, sulla transizione da “Quota 100” per proporre non un percorso per tornare al sistema contributivo quale definito nel 1995 (se del caso con qualche modifica), ma una riforma complessiva del sistema previdenziale (42 ani e 10 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 10 mesi per le donne) senza neanche quantizzarne i costi e specificare quali gruppi ne avrebbero tratto vantaggio e quali sarebbero stati penalizzati. Per bocca del Segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, hanno anche chiesto il superamento del sistema contributivo che, a suo parere, sarebbe in vigore solo in Cina. 



È stato facile argomentare che tale proposta (se non meglio articolata) avrebbe avvantaggiato soprattutto i lavoratori di genere maschile del Nord a scapito della collettività in generale e soprattutto delle future generazioni. Il presidente del Consiglio ha avuto buon e facile gioco nel dire che l’obiettivo era “il ritorno alla normalità” (ossia al sistema contributivo quale definito dal Governo Dini e aggiornato dal Governo Monti) per effettuare successivamente modifiche.

Per certi aspetti sono d’accordo con Maurizio Landini sull’esigenza di andare “oltre il contributivo” che, tuttavia, non è ancora completamente attuato a ragione della lunga transizione prevista (18 anni, a differenza dei tre contemplati in Svezia che nel 1995 fece una riforma previdenziale analoga). Lo ho scritto in due libri rispettivamente del 1997 e del 2001 e in saggi in inglese e francese in quegli anni. Oggi sarebbe ancora più urgente a ragione di due determinanti: a) prospettive demografiche molto differenti di quelle di ventisei anni fa; b) prospettive di crescita economica anch’esse meno incoraggianti di allora, perché anche ove le riforme riporteranno l’Italia a crescere occorre mettere in conto i vent’anni di stagnazione (con tre recessioni) di questo secolo. 

Il sistema contributivo – vale la pena ricordarlo – aggancia l’andamento delle pensioni a quello dell’economia reale e, dato che è “a ripartizione”, a quello dell’occupazione e del monte salari: se la popolazione non cresce e l’economia ristagna, non crescono neanche l’occupazione e il monte salari con cui pagare le pensioni dei nostri figli e dei nostri nipoti. Una riforma dovrebbe articolare il sistema su uno sgabello a tre gambe di cui: a) una universalistica basata su requisiti essenzialmente di età e finanziata in gran misura dalla fiscalità generale (razionalizzando la frastagliata spesa sociale ed eliminando, o riducendo drasticamente, voci discutibili come il cosiddetto Reddito di cittadinanza); b) una contributiva ossia agganciata ai contributi versati; e c) una terza complementare/integrativa basata su fondi pensione privati (di cui non mutare il trattamento tributario ogni due-tre anni come fatto nel recente passato, scoraggiando i risparmiatori). Due identiche proposte in tal senso sono state presentate nel 2009 alla Camera ed al Senato.

Tuttavia, puntare oggi su un nuovo “patto di San Tommaso” o sull’introduzione di una riforma complessiva della previdenza in un articolo del disegno di legge di bilancio (prima del “ritorno alla normalità” nel lessico di Draghi) è stato un errore. I sindacati avrebbero dovuto porre, a voce alta, il problema della spesa sanitaria – argomento appropriatissimo per la Legge di bilancio- in cui l’Italia arrancava prima della pandemia e arranca di più oggi.

Secondo l’ultimo rapporto Ocse Health at a Glance Europe 2020, uscito in questi giorni,  l’Italia resta fanalino di coda per quanto riguarda la spesa sanitaria in Europa: il confronto è effettuato sui valori di spesa pro capite a parità di potere d’acquisto che indicano per il nostro Paese una spesa nel 2019 pari a 2.473 euro (a fronte di una media Ocse di 2.572 euro) con un gap vertiginoso rispetto ad alcuni Paesi di riferimento come Francia e Germania che, rispettivamente, segnano valori di spesa sanitaria pro capite di 3.644 euro e 4.504 euro.

Durante la pandemia, abbiamo anche auspicato, senza esito, che il Governo Conte facesse ricorso ai 37 miliardi del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) per migliorare la sanità. Ricorso non fatto perché considerato “divisivo”. A fronte dei 68 miliardi di stanziamenti preconizzati nel programma predisposto dal ministero della Salute, di cui 37 a valere sul Mes, la missione “Sei” del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), dedicata al settore, ne prevede solo 20, ma altri investimenti per la sanità sono previsti alla voce “digitalizzazione”. Il disegno di Legge di bilancio prevede 6 miliardi aggiuntivi su tre anni al settore, soprattutto per i contratti di formazione specialistica dei medici, per le misure previste dal Piano strategico-operativo nazionale di preparazione e risposta a una pandemia influenzale (PanFlu) e per l’acquisto di vaccini anti-Covid.

Non si fa nulla per migliorare la sanità sul territorio, che – come si è visto nella fase acuta della pandemia nel 2020 – è il vero tallone d’Achille. Sappiamo che ci sono resistenze particolaristico-corporative al riassetto della sanità sul territorio. Proprio per questo motivo, i sindacati, a nome di tutti i lavoratori (pochi dei quali si possono permettere sanità privata), avrebbero dovuto alzare la voce chiedendo maggiori risorse (se non altro per dare piena attuazione alle reti di prossimità e alle Case della salute previste nel Pnrr) e anche riforme a costo zero come quelle proposte dalla FEDERSPeV (Federazione Sanitari Pensionati e loro vedove). Il Governo avrebbe avuto difficoltà a opporre un diniego. E avrebbero avuto tutti gli italiani con loro. 

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