Nei prossimi giorni il presidente del Consiglio Conte metterà in campo l’estremo tentativo di trovare un compromesso con le forze politiche che sostengono il Governo per l’evidente finalità di garantirne la sopravvivenza fino all’elezione del nuovo presidente della Repubblica. L’obiettivo di impedire nuove elezioni e il probabile avvento di un Governo di centrodestra ha rappresentato del resto il principale cemento della coalizione giallo-rossa, anche al costo di assicurare in via di fatto la sostanziale la continuità dei provvedimenti economici adottati dal precedente esecutivo.
Come abbiamo avuto modo di sottolineare in un recente articolo, la necessità di far sopravvivere il Governo, sta aumentando il tasso di autoreferenzialità delle sue iniziative, la dispersione delle risorse disponibili in un abnorme numero di interventi rivolti a incrementare l’invadenza dello Stato nella gestione dell’economia, e a far esplodere la spesa assistenziale a danno delle risorse che dovrebbero essere destinate alle attività produttive sane in grado di accelerare la ripresa. Provvedimenti destinati a compromettere ulteriormente il funzionamento della già precaria Pubblica amministrazione. Con la nuova Legge di bilancio recentemente approvata, sono state previste 130 nuove tipologie di interventi da avviare tramite 174 ulteriori provvedimenti attuativi, che si aggiungono al corposo numero di quelli già previsti dalle leggi approvate nel corso del 2020.
Le pur legittime ragioni che hanno motivato la nascita del governo Conte bis risultano prive di senso di fronte all’esigenza di traghettare il Paese fuori da un’emergenza sanitaria che sta producendo conseguenze economiche e sociali senza precedenti e di offrire adeguate garanzie in ambito europeo per l’utilizzo degli oltre 300 miliardi di nuove risorse Ue riservate per l’Italia nei prossimi 6 anni.
Confondere la sopravvivenza del Governo con l’esigenza di assicurare la governabilità, cioè l’effettiva efficacia dei provvedimenti messi in campo, e di costruire una governance che coinvolga attivamente gli attori istituzionali e privati esterni all’esecutivo, ma che hanno titolo e competenze per la gestione delle risorse indispensabili per il raggiungimento degli obiettivi, è l’errore più grave che possa essere compiuto in questa delicata fase politica del nostro Paese.
L’esperienza del Governo Conte bis è di fatto esaurita. Eventuali aggiustamenti dei numeri del Recovery fund, la sostituzione di alcuni ministri o il soccorso di qualche parlamentare dell’opposizione possono servire solo a prolungare l’agonia dell’attuale fase politica. Scartata l’ipotesi di un immediato ricorso alle urne nel contesto di una grave emergenza sanitaria, restano due interrogativi di fondo: verso quali obiettivi far convergere l’apertura di una nuova fase politica e quali soggetti potrebbero essere chiamati a guidarla con autorevolezza.
Al centro delle preoccupazioni dovrebbe essere posta l’esigenza di costruire una leadership autorevole e competente per la gestione delle risorse, in grado di offrire adeguate garanzie in ambito internazionale e di assicurare la convergenza sugli obiettivi e sui tempi di realizzo dei programmi nel rapporto con le istituzioni decentrate. Il complesso degli interventi adottati in ambito europeo per fronteggiare le conseguenze economiche dell’emergenza sanitaria è destinato nel medio periodo a generare conseguenze sul complesso delle regole del Patto di stabilità, temporalmente sospese, che hanno caratterizzato la prima fase della gestione della moneta unica. Dalle nuove regole, tutte da costruire, e dalla qualità della gestione delle nuove risorse disponibili, dipenderà il futuro della nostra comunità nazionale.
Il secondo punto dell’agenda dovrebbe essere quello di esplicitare in modo credibile il nesso che deve esistere tra i programmi di riforma e l’utilizzo ottimale delle risorse e la gestione dei nuovi programmi. Gli effetti di trascinamento della bonus economy, le politiche assistenziali verso le imprese e il mercato del lavoro, sono incompatibili con l’esigenza di riformare il sistema fiscale nella direzione di agevolare il flusso dei risparmi verso gli investimenti, la crescita del reddito ufficiale, la riconversione del mercato del lavoro nel segno della crescita delle competenze dei lavoratori e dell’occupabilità delle persone, il sostegno alle famiglie per la cura dei minori e delle persone non autosufficienti. Tutto questo infatti dipende in gran parte dal ripensare le finalità, e la qualità, della gestione delle risorse esistenti, come condizione per utilizzare in modo efficiente quelle aggiuntive.
La convinzione tanto diffusa, quanto storicamente immotivata, che debba essere lo Stato gestore ed erogatore di risorse a risolvere i problemi, è essa stessa parte integrante delle derive della bonus economy e di una visione distorta della società. Quest’ultima immaginata come un insieme di categorie perennemente bisognose di fiumi di assistenza, e con le rappresentanze sociali ridotte a competere tra loro nel rivendicare provvedimenti pubblici a sostegno dei propri associati. La contraddizione è palesemente dimostrata dalla crescita dei risparmi nei depositi dei conti correnti durante la crisi Covid, che è stata superiore all’entità delle perdite subite sul Pil e alle risorse erogate dallo Stato a sostegno delle imprese e delle persone. Il modello statalista corporativo deve essere sostituito da quello partecipativo e contributivo, con le rappresentanze del mondo del lavoro e del Terzo settore chiamate in prima persona a mettere in campo idee risorse ed energie per ottimizzare la gestione dell’insieme delle risorse disponibili. Per queste finalità diventa necessario ripensare la governance dei nuovi programmi, adottando il modello utilizzato dalla Protezione Civile (prima della sciagurata riforma del governo Letta che l’ha ridotta al rango di un apparato aggiuntivo della Pubblica amministrazione), di mobilitazione delle competenze istituzionali e civili, delle informazioni e delle risorse per realizzare con procedure agevolate gli obiettivi convenuti.
La figura ideale per guidare questo percorso è certamente quella dell’ex Presidente della Bce Mario Draghi, ma un incarico di questo tipo, peraltro condiviso da buona parte delle forze politiche al di là dei pronunciamenti formali, non può essere vincolato alla missione di formare un Governo tecnico. Deve scaturire dalla consapevolezza che gli attuali schieramenti politici, per diversi motivi, non sono in grado di garantire in modo autosufficiente il perseguimento degli obiettivi di interesse generale e per scadenze che vanno oltre l’attuale congiuntura politica.
La scelta di formare un Governo di coesione nazionale fino al rinnovo della presidenza della Repubblica, garantito dalla figura dell’attuale Presidente in carica e con la guida dell’esecutivo affidata alla Personalità italiana più autorevole in ambito internazionale, non può che essere il frutto di un’elevata assunzione di responsabilità da parte delle forze politiche parlamentari, e confortata dalla partecipazione al Governo dei loro principali esponenti. Un’ipotesi di questo genere riscontra un consenso maggioritario nella coalizione di centrodestra, che peraltro gestisce la prevalenza dei Consigli regionali, ma viene osteggiata dalla componente del M5S, destinata a essere ridimensionata negli assetti di potere, e da una parte significativa del Pd che scommette sulla prospettiva di un’alleanza organica con i grillini. L’evoluzione degli eventi consegna al Partito democratico la responsabilità di aprire una nuova fase della politica italiana o di accompagnarla verso un ulteriore degrado delle istituzioni.